Trattamento
Psicologico Indiretto in Età Evolutiva e Adolescenza |
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Letizia Maduli
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Premessa
Per trattamento psicologico indiretto si intende una
metodologia clinica utilizzata in psicologia senza la
presenza diretta del portatore del sintomo o del disturbo ma
con la presenza di almeno un familiare significativo.
In psicologia emotocognitiva le forme di trattamento
indiretto mirano a scardinare i processi di comunicazione e
comportamento ridondanti all'interno di un sistema di
riferimento che potrebbero essere alla base del mantenimento
di un sintomo, una psicopatologia, un problema. Le tecniche
di trattamento indiretto si sono rivelate le più efficaci
nella maggior parte dei casi di gravi disturbi di
personalità, dove la persona non riconosce pienamente
l'esistenza di un problema o comunque rifiuta una terapia
psicologica e nei casi di interventi in infanzia e
adolescenza.
In questa sede affronteremo l'applicazione delle forme
terapeutiche indirette rivolte all'età evolutiva.
L'intervento diretto su un bambino od un adolescente spesso
si rivela dannoso per il soggetto e potrebbe aggravare una
situazione psicopatologica anziché migliorarla. Nei nostri
studi capita spesso che problematiche di un bambino siano in
realtà da considerarsi iatrogene. A volte l'intervento di
cura sul minore è quindi uno dei responsabili del
mantenimento e dell'aggravamento della patologia quando si
tratta di disturbi o problematiche di natura psicologica.
L'intervento indiretto è efficace per quasi ogni forma
psicopatologica in età evolutiva, dal disturbo da deficit di
attenzione/iperattività (ADHD) ai tic, dai disturbi della
condotta alle problematiche di apprendimento, dall'ansia e
dalle fobie fino ai disturbi della nutrizione, nonché tutte
le problematiche legate all'attività scolastica.
In altri contesti clinici, soprattutto di tipo
medico-psichiatrico, si sta assistendo ad un abbassamento
dell'età in cui vengono somministrati farmaci. La
somministrazione di uno psicofarmaco, stando alla nostra
casistica clinica, si è rivelata una delle forme più gravi
di mantenimento della maggior parte delle sintomatologie,
sia in età adulta che, soprattutto, in età evolutiva. Un
bambino che viene considerato malato si comporterà da
malato. Nella maggior parte dei casi gli interventi
psicologici in età evolutiva, in assenza di condizioni
mediche generali in grado di giustificare una
sintomatologia, permettono oggi la remissione di quasi ogni
forma psicopatologica, senza uso di farmaci e soprattutto
senza inserire un bambino od un adolescente in un contesto
di cura.
I trattamenti psicologici indiretti rispondono inoltre ad
un'esigenza fondamentale che i familiari di un minore che
evidenzia delle problematiche hanno, quello di fornire
strategie di comunicazione e di comportamento per poter
rispondere in modo adeguato a situazioni che, nella maggior
parte dei casi, sfuggono dal controllo e dalle proprie
capacità di intervento. I genitori si sentono spesso
impotenti di fronte ad un problema e chiedono costantemente
cosa possono fare per aiutare il proprio figlio, come si
possono comportare.
Molti genitori che si rivolgono presso i nostri studi di
psicologia emotocognitiva dichiarano di essersi già rivolti
ad istituti di neuropsichiatria però senza ottenere un
successo terapeutico e, soprattutto, dichiarano che alcuni
professionisti della salute colpevolizzano i genitori.
Ricordiamo che un genitore che desidera la salute del
proprio figlio agisce sempre nel giusto. Di fronte ad un
problema, però, non è importante se l'azione sia giusta o
sbagliata, ciò che importa allo psicologo è se il tipo di
comunicazione ed il tipo di comportamento abbiano
funzionato, questo perché quando un atteggiamento od una
cura non funzionano abbiamo riscontrato che in realtà
possono peggiorare la situazione.
Oggi esiste quindi una nuova possibilità efficace di terapia
in età evolutiva e adolescenza che mira a scardinare il loop
disfunzionale che sostiene un sintomo, un disturbo mentale
od una problematica psicologica o psico-sociale ed è il
trattamento psicologico indiretto.
Terapia Indiretta in Età
Evolutiva e Adolescenza
L’intervento psicologico di tipo indiretto può essere
considerato lo strumento clinico di riferimento principale
nella terapia, attraverso il colloquio psicologico, di sintomatologie, disturbi mentali,
disagi e problematiche dell’area evolutiva.
Il trattamento indiretto, nell’infanzia e nell’adolescenza,
è un tipo di intervento psicologico che prevede solo il
coinvolgimento di uno o più membri adulti significativi
della famiglia, i quali rappresentano la risorsa principale
per un agire un cambiamento, in genere in tempi molto brevi,
e per ripristinare una situazione di benessere del minore e
contemporaneamente tutto il sistema familiare.
La presenza dei figli in età evolutiva ed adolescenza non è
prevista per due motivi principali:
-
evitare che il bambino o
l'adolescente si senta malato, inadeguato o senta di
rappresentare il “problema” che preoccupa la famiglia e
che causa il malessere dei genitori e/o dei fratelli;
-
favorire un intervento
efficace e breve, in quanto per la risoluzione del
problema è importante modificare i processi di
comportamento e comunicazione messi in atto dal sistema
familiare per far fronte al problema e che, come la
famiglia ha potuto constatare, non hanno prodotto
effettivi risultati.
La specificità dell’intervento
clinico indiretto è focalizzare l'attenzione clinica sul
sistema di riferimento che ha richiesto l'intervento, cioè
la famiglia. L’intervento, quindi, prende in considerazione
il sistema di riferimento “famiglia” ed i propri costituenti
(genitori, figli, ecc.) e l'ambiente di vita del contesto
familiare.
Il grande impegno che il bambino fa per crescere, dalla
nascita fino all’adolescenza, è costellato da momenti di
instabilità e di incertezze, questo processo non riguarda
solo il bambino ma coinvolge la famiglia come sistema di
riferimento.
I cambiamenti dovuti alle diverse fasi evolutive possono
verificarsi a vari livelli, in fasi diverse, e in aree
diverse (fisiche, cognitive, affettive, relazionali,
scolastiche, ecc.).
I problemi possono insorgere quando l’ambiente ha difficoltà
ad adattarsi ai cambiamenti dovuti ai processi di crescita,
e a favorire i movimenti di autonomia ed indipendenza dei
figli sin dai primi anni di età.
Questo processo ampio ed articolato può portare, a volte, il
bambino ad agire in modo disorganizzato e le reazioni stesse
del sistema di riferimento possono essere, a loro volta
disorganizzate, o organizzate in modo rigido e
disfunzionale. Questo in genere non avviene per colpa della
famiglia che agisce per il bene del figlio ma per una
reazione automatica ad una situazione imprevista che
richiede un rapido adattamento.
Quando i livelli di tensione nel soggetto sono
significativamente elevati possono manifestarsi diversi
sintomi come: disturbi somatici, enuresi, tic, balbuzie,
fobie, forme di autolesionismo (mangiarsi le unghie,
strapparsi i capelli come nella tricotillomania, mordersi le
labbra), disturbi alimentari e della nutrizione, incubi
notturni, oppure tendenza all’aggressività, all’isolamento,
all’irrequietezza, senso di inadeguatezza, apatia,
difficoltà a socializzare, tendenza alla svalorizzazione,
inibizione emotiva, inibizione cognitiva, ecc.
Altri sintomi rilevabili sono scarso rendimento scolastico,
rifiuto della scuola, rifiuto delle regole, comportamento
oppositivo, tendenza a dire bugie, piccoli furti e così via.
I sintomi che si manifestano nell'infanzia e
nell’adolescenza potrebbero essere di natura transitoria. La
focalizzazione dell'attenzione del sistema su un sintomo che
potrebbe essere transitorio tende alla cronocizzazione del
sintomo stesso portando anche a gravi forme
psicopatologiche. L'attenzione al sintomo si innesca
attraverso processi specifici di comportamento e
comunicazione di tutto il sistema che mira a risolvere, al
più presto, una situazione che spaventa e preoccupa. I
processi attentivi possono evidenziarsi sia con il cercare
di spiegare o far capire al proprio figlio la situazione,
sia nel tentativo di controllare una reazione involontaria
dell'organismo, sia attraverso il fare finta di nulla, sia
nel cercare di spronare il bambino od il ragazzo, sia nelle
opere di convincimento, ecc.
Uno dei comportamenti più comuni, ad esempio, di fronte ad
un disturbo dell'alimentazione come l'anoressia nervosa in
adolescenza, o il rifiuto del cibo nei bambini, è quello di
cercare di invogliare il proprio figlio a mangiare,
controllare se abbia mangiato oppure continuare a preparare
cibo o ad apparecchiare. Questo comportamento genera spesso
un tensione che, in psicologia emotocognitiva, definiamo
sintomo-specifica. Essendo il sintomo un tentativo autonomo
dell'organismo di riduzione delle tensioni centrali e
periferiche, l'incremento di tensione genera l'incremento
della condotta disfunzionale. Si crea un conflitto
intrasistemico tra una tendenza autonoma dell'organismo e la
tendenza volontaria del contesto antagonista a quella
dell'organismo stesso. Presto tali tentativi di risolvere un
problema falliscono fino a far sperimentare alla famiglia la
sensazione di incapacità e di impotenza nell'aiutare il
proprio figlio.
Lo psicologo deve sempre tenere
in considerazione la natura transitoria di alcune
problematiche riducendo i comportamenti del sistema di
riferimento che generano incremento tensivo. Un'altra
variabile che lo psicologo dovrà valutare è relativa alla
continuità e alla discontinuità dello sviluppo, in quanto,
data la complessa interazione tra fattori di ordine
bio-psico-sociale che influenzano il processo evolutivo, può
accadere che alla maturazione fisiologica non corrisponda
una maturazione cognitiva e psicologica, come è comune nella
fase adolescenziale.
Cosa significa tenere conto di questi aspetti? Significa
fondamentalmente riuscire ad evitare che un problema diventi
il fattore intorno a cui si organizza il sistema preoccupato
di ristabilire una condizione di “normalità”. Significa
evitare la cronicizzazione di una problematica
potenzialmente transitoria in un vero e proprio disturbi
mentale.
Un sintomo non va né sottovalutato né sopravvalutato, ma
definito nelle sue giuste proporzioni.
Nell’infanzia e nell’adolescenza il manifestarsi di un
problema mette in atto dei tentativi di soluzione autonoma
di tutto il sistema, che, come molte famiglie possono
valutare in modo autonomo, non sempre risultano efficaci
ovvero in grado di risolvere il problema. Questo non
significa che un problema non sia risolvibile in tempi brevi
o che sia grave, significa che non è stata applicata una
metodologia adatta per quello specifico problema. Lo
psicologo offre proprio al sistema strategie in grado di
portare, in tempi brevi, un sintomo od un problema a
remissione.
Una difficoltà produce, nel sistema, un tentativo autonomo
di soluzione che, se non funziona, può essere
controproducente e si può trasformare in un problema di
proporzioni più ampie, anche molto gravi.
I problemi psicologici che coinvolgono il contesto familiare
si formano spesso sulla base delle reazioni messe in atto
sia dal minore che dal sistema per cercare di risolvere il
problema stesso. Il disagio diventa così causato non tanto
dal problema in sé, quanto dal modo in cui si sta cercando
di risolverlo. Si innesca un processo ridondante, un
circuito chiuso, che in psicologia emotocognitiva definiamo
loop disfunzionale (Baranello, 2006), che non si
riesce a scardinare. Lo psicologo interviene proprio su tale
loop disfunzionale valutando, per ogni caso specifico, le
variabili che sostengono il loop. Si definisce quindi un
intervento ad hoc in grado di scardinare i processi
disfunzionali agendo sui sistemi antagonisti che generano
gli stati di tensione che stanno mantenendo la
sintomatologia od il problema. In questo modo si utilizzano
le stesse risorse dell'organismo e del sistema ripristinando
un normale e sano processo di funzionamento. Di fatto la
maggior parte dei processi disfunzionali risultano
reversibili.
Il rischio maggiore al quale una famiglia può andare
incontro è che un problema possa trasformarsi in un profondo
disagio e successivamente in una forma psicopatologica
grave. Questo accade quando il problema si mantiene,
si stabilizza e si amplifica in seguito alla messa in atto
di azioni (comprese forme di cura) perpetuate nel tempo
nonostante non abbiamo avuto reali effetti nel miglioramento
della situazione. Ricordiamo che quando una comunicazione,
un comportamento od una forma di cura non funzionano,
potrebbero essere proprio i fattori che mantengono o che
potrebbero aggravare un problema.
Le azioni ed i comportamenti vanno sempre a confermare la
percezione. Se il figlio viene percepito malato ci si
comporterà come se lo fosse e questo comportamento conferma
la malattia.
Un figlio considerato psicotico verrà trattato da psicotico
anche se qualora non lo fosse. A volte una diagnosi
attribuita da un professionista della salute potrebbe essere
accettata passivamente e quindi la famiglia ed i sistemi di
cura, tenderebbero a rapportarsi più con il disturbo che con
il minore come persona potenzialmente sana. Questo, dalla
nostra casistica clinica, risulta molto spesso patogenetico.
Purtroppo a molti minori vengono attribuite diagnosi
basandosi soltanto sulla fenomenologia dei propri
comportamenti senza una valutazione globale del
funzionamento e dei processi ridondanti di mantenimento
sintomatologico.
Un figlio considerato iperattivo verrà trattato da
iperattivo, ovvero la famiglia metterà in atto comportamenti
per ridurre l'iperattività, che, sfortunatamente, in genere
non funzionano. Il fatto che non funzionino genera nella
famiglia la preoccupazione che si possa trattare di un
problema grave e di una malattia. Si inizia così un iter
interminabile di cure neuropsichiatriche che potrebbero
durare anni senza che si evidenzi un reale miglioramento
ovvero una remissione dei sintomi. A questo punto la
famiglia pensa che il problema sia cronico e che il proprio
figlio dovrà essere sempre sostenuto da cure farmacologiche.
Spesso si ricorre a comunità o cooperative che sostengano la
situazione, ecc.
E se il problema fosse stato transitorio? Se fosse generato
da una modalità di reazione ai primi sintomi disfunzionale?
Se la premessa fosse sbagliata? Questa purtroppo è la genesi
della maggior parte dei disturbi. Problemi potenzialmente
transitori che vengono trattati come problemi cronici.
Grazie alle innovazioni teoriche della psicologia
emotocognitiva che ha spostato l'attenzione dal sintomo come
problema a sintomo come soluzione tensiva oggi abbiamo
riscontri incredibili nella remissione della maggior parte
delle forme psicopatologiche in età evolutiva e adolescenza
grazie agli interventi psicologici indiretti.
Questo perché i processi di comunicazione e di comportamento
tendono a confermare anche nel figlio la percezione di
essere malato. E' un fenomeno noto da tempo agli psicologi
come "profezia che si autoavvera".
Il sistema si organizza non intorno al figlio in quanto
tale, ma intorno al figlio in quanto portatore di un sintomo
o di un problema, quindi non solo Mario, ma “Mario che non
mangia” - “Mario che bagna il letto la notte” - “Mario che è
un bambino o ragazzo fragile ed insicuro” - “Mario che va
male a scuola” - “Mario che è diventato aggressivo e non
ubbidisce più” - “Mario che non riesce a stare fermo ne a
casa ne a scuola” - "Mario che ha un tic” ecc. Ogni cosa che
lo riguarda viene fatta in funzione di “Mario che.....” Il
problema diventa la lente attraverso la quale viene visto
Mario, scotomizzando le sue risorse e potenzialità presenti.
Questo tipo di organizzazione immette il sistema familiare
in quel loop disfunzionale di cui abbiamo accennato, ovvero
un processo circolare e ridondante, che può generare
interazioni familiari rigide e potenzialmente patogenetiche
che possono mettere a rischio la salute di uno o più
componenti e, ovviamente, dell'intero sistema di
riferimento.
La soluzione adottata genera una sofferenza che non origina
più dal problema primario, ma da quello che viene fatto nel
tentativo di risolvere il problema stesso; la psicologia
emotocognitiva definisce questo tipo di sofferenza come
secondaria (Baranello, 2006) rispetto alla sofferenza
primaria (ibidem) intesa come una reazione automatica
dell’organismo prodotta da una situazione, un’esperienza o
un sintomo. I tentativi psico-sociali di risolvere la
sofferenza primaria che non riescono a raggiungere il loro
scopo, ma falliscono in modo costante, aggravano la
situazione rappresentando il problema sul quale focalizzare
l’intervento psicologico.
Questo processo dà origine a quello che la psicologia
emotocognitiva definisce conflitto attuale, nel quale la
sofferenza determinata dal tentativo autonomo del sistema di
risolvere una tensione (ad esempio il sintomo del figlio)
produce comportamenti in contrasto con il problema
“apparente” (es. il sintomo). Questo genera tensione
problema-specifica che viene risolta dal sistema attraverso
il sintomo stesso.
In questa ottica si colloca la funzionalità e l'efficacia
dell'intervento psicologico indiretto secondo l'approccio
della psicologia emotocognitiva. I vecchi interventi di cura
psicologica sul minore in genere non permettono una rapida e
completa remissione del sintomo, sintomo che, come oggi
sappiamo, è mantenuto da modalità disfunzionali di
organizzazione sistemica.
La psicologia emotocognitiva spiega il comportamento messo
in atto dalla famiglia per ridurre sintomi e problemi del
figlio come la tendenza dell’individuo o della famiglia ad
evitare la sofferenza primaria che il sintomo o, più in
generale, la situazione, inevitabilmente causano. La
sofferenza, concetto psicofisiologico e non
retorico-filosofico, che comprende ansia, stati di tensione
fisica e/o emotiva, frustrazione viene intesa dalla famiglia
e dal soggetto come un’esperienza pericolosa, negativa che
deve essere evitata a tutti i costi.
Evitare la sofferenza, o piuttosto tentare di evitarla,
appare erroneamente la via più semplice da perseguire,
quella logica. Ma il nostro organismo la produce in modo
autonomo e involontario come normale conseguenza di un
cambiamento con attribuzione di disfunzionalità.
La famiglia si trova nella condizione di tentare di evitare
l’inevitabile, ossia annullare la sofferenza naturale che
deriva dal disagio manifestato del figlio. In questo
processo l’attenzione di tutto il sistema è puntata sul
disagio e sui tentativi di risolverlo, questo processo
conferma ed aggrava il sintomo stesso incrementando uno
stato di sofferenza che definiamo secondaria, cioè legato al
tentativo di risolvere l'inevitabile sofferenza primaria.
L’intensa preoccupazione genera una percezione distorta del
problema, sviluppando una situazione di ansia anticipatoria
che condiziona in modo negativo il presente nel tentativo di
evitare un ipotetico problema che si potrebbe presentare in
un futuro prossimo.
L’urgenza di fare qualcosa porta a “provarle tutte”,
rischiando di agire in modo confuso e scoordinato, in questo
modo la soluzione al problema è fittizia e transitoria,
ossia legata al momento stesso.
Nel contesto familiare la
ricerca di una soluzione immediata ad un disagio mostrato
dal figlio, porta il genitore a fare quello che sembra
essere più opportuno, in base alla percezione, sia del
disagio che della realtà, ma che non necessariamente è
adatta per il figlio.
In psicologia emotocognitiva si valuta ciò che funziona e
ciò che non funziona indipendentemente dal fatto che il modo
di porsi nei confronti del figlio sia giusto o sbagliato.
Anzi l'atteggiamento di una famiglia che vuole il bene del
proprio figlio sia sempre giusto ma quando il comportamento
adottato risulta inefficace, occorre iniziare a pensare che
forse il metodo non funziona, nonostante le buone
intenzioni.
Lo psicologo deve ricordare che
quando una famiglia afferma di averle provate tutte
sostanzialmente si riferisce, focalizzando l'attenzione sui
processi anziché sui contenuti, a tutti i modi per cercare
di ridurre lo stato di disagio, il sintomo od il problema.
Questo riflette il fatto che nell'insieme si è cercato di
contrastare un'azione spontanea, seppure apparentemente
disfunzionale, di un organismo o di un sistema generando di
fatto tensioni sintomo-specifiche.
Tale spostamento del focus dell'intervento psicologico
produce modificazioni di comportamento e comunicazione di
tale portata che la sofferenza aspettata non si evidenzierà
nei termini temuti anzi, modificando l'azione si modificherà
sia la percezione del proprio figlio che il suo stato di
salute.
I risultati del trattamento fino ad ora ottenuti confermano
la teoria proposta dalla psicologia emotocognitiva. I
genitori che sono stati in grado di modificare
l'atteggiamento seguendo le prescrizioni fornite dallo
psicologo hanno permesso al proprio figlio una riduzione
rapida di sintomi, di comportamenti disfunzionali e di
disturbi anche fenomenologicamente molto gravi. Lo sblocco
della situazione generalmente avviene in tempi piuttosto
brevi e deve risultare visibile.
Conclusioni
L’intervento psicologico per la risoluzione dei problemi e
dei disagi che coinvolgono una famiglia passa attraverso la
valutazione delle modalità che le persone che la compongono
mettono in atto per fare fronte alle diverse situazioni
legate al problema presentato.
Un adattamento funzionale nasce dalla possibilità di
riconoscere quando un comportamento, pur giusto, non risulta
efficace, e dalla capacità di sperimentare nuove soluzioni.
L’intervento indiretto, secondo l'approccio della psicologia
emotocognitiva, è un metodo altamente efficace per la
risoluzione dei disturbi che insorgono nell’infanzia e
nell’adolescenza e delle più ricorrenti problematiche
rilevabili nel rapporto genitori e figli e dei problemi
scolastici e relazionali dei propri figli.
Ogni intervento per essere efficace deve essere adattato al
sistema di riferimento.
Il trattamento indiretto non è soltanto un intervento sui
genitori, ma un intervento con i genitori per il
benessere del figlio e della famiglia nella sua complessità.
Con gli interventi su e con i genitori si organizza un
sistema in senso funzionale che permette di risolvere
sintomi e problemi anche di una sua specifica costituente.
La terapia indiretta, attraverso il colloquio psicologico,
non ha come unico obiettivo il benessere del minore, ma
anche, il benessere psicofisico del genitore.
L’obiettivo dell’intervento è, quindi, il benessere
complessivo della famiglia, indipendentemente dalle cause
che possono aver originato il problema, siano esse
riconducibili ad eventi particolari (nascita di un fratello,
separazione, malattia, lutto, trasloco, inserimento
scolastico, ecc.) che ad altre situazioni.
Questo tipo di intervento focalizza la propria attenzione
sui processi bio-psico-sociali che sostengono, mantengono e
potrebbero aggravare il problema. Grazie alle innovazioni
teoriche e tecniche dell'approccio sistemico-relativista
della psicologia emotocognitiva possiamo oggi affermare che
il trattamento psicologico indiretto è la forma di
trattamento d'elezione per la maggior parte dei sintomi,
delle problematiche e dei disturbi in età evolutiva e
adolescenza. Ricordiamo inoltre allo psicologo che per poter
agire in forma indiretta è necessaria un'alta formazione ed
esperienza nell'applicazione delle tecniche derivate di
psicologia emotocognitiva. Un uso non corretto delle
tecniche di intervento potrebbe compromettere l'alta
efficacia della metodologia clinica.
Grazie ai metodi di controllo dell'efficacia razionale del
trattamento, lo psicologo ad indirizzo di psicologia
emotocognitiva, ha comunque a disposizione strumenti clinici
per poter valutare costantemente l'applicazione efficace del
colloquio psicologico.
La finalità del trattamento indiretto è l'organizzazione
sistemica funzionale che si deve evidenziare, in tempi
piuttosto brevi, nello sblocco "visibile" della situazione
di disagio presentata.
Dott.ssa
Letizia Maduli
riferimento bibliografico per citare questa fonte:
Maduli, L. (2007)
Trattamento psicologico indiretto in età evolutiva e
adolescenza.
SRM Psicologia Rivista (www.psyreview.org).
Roma, 16 giugno 2007.
Bibliografia di Riferimento
Baranello,
M. (2006) I concetti di sofferenza primaria
e sofferenza secondaria in psicologia emotocognitiva. SRM Psicologia Rivista (www.psyreview.org).
Roma, 26 giugno 2006.

Baranello,
M. (2006) Psicologia emotocognitiva: il loop
disfunzionale. SRM Psicologia Rivista (www.psyreview.org).
Roma, 10 marzo 2006.

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