Comprensione e Prevenzione del Suicidio in Psicologia Emotocognitiva


dalla comprensione dei comportamenti suicidari e dell’ideazione suicidaria alle opportunità di prevenzione sociale su larga scala e d’intervento psicologico sia diretto che indiretto. Il suicidio come risposta alla percezione psicologica di “perdita del senso di volizione”.

ABSTRACT. In questo articolo, il Dott. Baranello, fondatore della psicologia emotocognitiva, sostiene la necessità di cambiare prospettiva rispetto alle vecchie conoscenze sul funzionamento psicofisiologico dell’organismo umano, al fine di realizzare effettivamente qualcosa di concreto nella prevenzione del suicidio, quando questo risulta essere una scelta “disfunzionale”. L’autore afferma che la forma primaria di cura, e quindi di prevenzione, deve essere un’educazione funzionale basata su presupposti scientifici solidi e chiari.
Per prevenire l’atto del suicidio, è necessario rivedere i presupposti che hanno fino ad ora condizionato i vecchi programmi preventivi e riabilitativi. L’autore sostiene che se una “cura” non risultasse efficace potrebbe essere perché basata su teorie non del tutto corrette o addirittura errate. La teoria è la premessa che permette di costruire gli interventi; una teoria “non adeguata” porterà a un intervento altrettanto inadeguato, anche se applicato con le migliori intenzioni. Il vero grande ostacolo alle opportunità di soluzione è spesso legato a chi detiene “potere decisionale” in ambito istituzionale (accademico, politico, economico). Molto spesso, l’innovazione apportata da scienziati, studiosi, ricercatori e professionisti della salute al di fuori di alcuni contesti accademici viene contrastata o ignorata, mentre vengono promosse e finanziate ricerche di gruppi già in posizione dominante. In questo articolo, si assume una chiara posizione rispetto al tema del suicidio, alla sua prevenzione sociale e alla possibilità di riabilitazione per chi è afflitto da pensieri e ideazione suicidaria. L’obiettivo di questo lavoro è contribuire a una maggiore comprensione nella letteratura scientifica sul suicidio e, allo stesso tempo, informare chi si dovrebbe occupare di prevenzione e comunicazione su larga scala di nuove opportunità in merito a tale tematica.

Comprensione del suicidio. Principi base.

Per una completa e attuale comprensione dei “processi” che sottendono i pensieri ossessivi di suicidio, l’ideazione suicidaria e gli atti di suicidio completato dobbiamo innanzitutto comprendere, con il più alto grado di chiarezza possibile, quali siano le reali funzioni psicofisiologiche dell’organismo. Per farlo partiremo da quel complesso di recenti acquisizioni, conoscenze, intuizioni e scoperte noti come “teoria emotocognitiva”. La psicologia emotocognitiva ha cercato di spiegare come l’organismo umano, al pari di ogni sistema preso come riferimento, tenda sempre a organizzarsi per il proprio sviluppo e mantenimento dinamici (in senso evolutivo). Ogni azione umana, sia essa considerata “pensiero” o “comportamento” è il risultato di tali processi organizzativi. Allo stesso tempo è necessario definire quali siano i processi che potrebbero avere esisto in un’azione suicidaria e spiegare la differenza tra pensiero, ideazione e atto del suicidio.

In psicologia emotocognitiva non si focalizza l’attenzione sul contenuto simbolico, sul cosiddetto “significato”, che lasciamo a chi si volesse baloccare con la metafisica, ma ci si riferisce, in modo molto pragmatico e scientifico, a quelli che definiamo “i processi di funzionamento” del sistema di riferimento. Infatti abbiamo più volte ribadito che, indipendentemente dai contenuti simbolici, i quali a volte possono essere così astratti da risultare nella migliore delle ipotesi del tutto inutili sul piano pratico, ogni sistema di riferimento può essere compreso nei suoi processi funzionali. Tali processi risulteranno sempre gli stessi indipendentemente dai contenuti simbolicamente interpretati.

Lo spostamento di ottica dai contenuti ai processi, proposto dalla psicologia emotocognitiva, ha permesso non soltanto una migliore comprensione delle attività umane, compreso il tema del suicidio, ma ha anche permesso di rendere notevolmente più proficui, in termini di efficacia basata sull’evidenza, i trattamenti psicologici e quelli educativi. Crediamo fortemente che, nel prossimo futuro, oltre gli psicologi anche gli educatori, adeguatamente formati nella teoria emotocognitiva, possano rappresentare una risorsa fondamentale per ogni attività di prevenzione. E’ da questo punto di osservazione, in buona parte diverso rispetto ai vecchi costrutti psicologici che ancora, in certi ambienti accademici, sono cristallizzati sul simbolismo, che parleremo di suicidio nei suoi diversi aspetti fenomenologici, sempre riferendoci ai processi psicofisiologici che, comuni a tutti i fenomeni, sottendono la manifestazione.

Cercheremo di rispondere a domande ad altissimo impatto sociale come quelle legate alla possibilità di prevenzione del suicidio o alla riabilitazione funzionale di chi tenta o abbia tentato il suicidio. Non spetta a noi “giudicare” l’eventuale “scelta suicidaria” è quindi bene specificare che, in tale contesto, ci focalizzeremo sul pensiero o gesto suicidario di tipo “disfunzionale”. Per farlo partiremo, come già accennato, nel definire cosa sia il suicidio, come può essere differenziato in base alle funzioni sistema-specifiche e come i processi di organizzazione funzionale di un organismo possano esitare nella manifestazione che chiamiamo “suicidio”.

Una comprensione del fenomeno che permetterà di proporre dei programmi di educazione scientifica da applicare a diversi livelli di integrazione sociale. Parlando di suicidio una cosa è certa, le cure fino a oggi applicate, i tentativi di prevenzione messi in atto, non hanno ridotto il fenomeno psico-sociale. Questo ci fa capire sostanzialmente che le azioni di cura e prevenzione finora applicate fanno riferimento a teorie, quindi a premesse, che potrebbero essere errate o comunque non adeguate agli obiettivi di tutela della salute che si sono prefisse. Ecco allora che la psicologia emotocognitiva potrebbe rappresentare oggi un nuovo modo, nel panorama scientifico, di comprendere il funzionamento dei sistemi complessi tra i quali l’essere umano e le sue forme di organizzazione sociale. Un cambiamento di ottica che potrebbe trovare nelle classiche accademie, spesso interessate a difendere vecchi poteri, l’unico oppositore istituzionale, forse il più difficile da abbattere in quanto l’opposizione potrebbe non avvenire sul piano della dimostrazione scientifica, come qualsiasi “scienziato di fatto” chiederebbe, ma sul piano degli aspetti economico/politici.
Una breve digressione circa l’opposizione istituzionale. Essa potrebbe trovare terreno fertile in una certa propensione sociale a conformarsi a un pensiero unico accademico-politico. Questo aspetto è fondamentale ai fini del nostro discorso sul suicidio. Infatti ogni censura nasce dalla paura di perdere il proprio potere dominante in un certo contesto o in un determinato momento storico. Di fronte a cambiamenti scientifici importanti, soprattutto dal punto di vista delle premesse dalle quali si parte, in gioco non dovrebbe esserci l’interesse di pochi al potere, qui “in gioco” c’è invece la tutela del diritto di autodeterminazione di tutti, c’è la salute delle persone, la vita, il diritto di ognuno di noi di essere informato in modo chiaro. Perché sapere è l’unica forma di tutela della nostra libertà di scelta.

È proprio dove non c’è più scelta, dove viene inibita l’autodeterminazione, dove c’è perdita di “senso di volizione”, quindi nel momento nel quale il soggetto non è più realmente artefice diretto della propria esperienza, che nasce l’ideazione e l’atto del suicidio anche in persone socialmente considerate del tutto sane.

Pensieri ossessivi, ideazione suicidaria e suicidio

Negli anni di esperienza clinica presso i nostri centri di psicologia emotocognitiva, attraverso una valutazione dei processi funzionali, abbiamo potuto notare come i pensieri di suicidio dei pazienti che si recavano direttamente presso i nostri studi, fosse inscrivibile nel nuovo schema concettuale del “loop disfunzionale” (Baranello, 2006a). Il loop disfunzionale si può definire come lo schema rappresentativo di un processo di organizzazione ridondante nel quale la persona può trovarsi nel momento in cui le proprie azioni, di pensiero e comportamento, siano tese ad annullare, gestire, ridurre quindi “tentare di controllare”, attraverso azione volontaria, un sintomo che il soggetto connota come “spiacevole” (sofferenza primaria).

Attraverso il nostro schema del “loop disfunzionale” siamo così riusciti a spiegare ogni tipologia di fenomeno disfunzionale, spesso confutando la maggior parte delle vecchie teorie di matrice filosofica che ancora dominano alcuni ambienti psicologici istituzionalizzati.

Per quando riguarda il suicidio nella valutazione dei processi funzionali, adottando lo schema emotocognitivo del loop disfunzionale, abbiamo potuto dimostrare come, indipendentemente dal contenuto “suicidio”, fosse possibile distinguere tra pensieri di suicidio, ideazione suicidaria e atto del suicidio e, allo stesso tempo, ricondurre tali apparenti differenze in un unico schema utilizzabile per scopi educativi e terapeutico-riabilitativi.

Diversi pazienti presentavano dei pensieri di natura ossessiva relativi al suicidio. In questo caso il contenuto del pensiero era relativo al suicidio ma senza nessuna ideazione quindi senza nessuna intenzione di commettere atti anti-conservativi. Un singolo pensiero di suicidio, inoltre, quindi di natura non ossessiva, non può essere considerato un problema. Potrebbe trattarsi di un’idea transitoria legata a fattori stressogeni, senza alcuna intenzione reale di commettere un azione anticonservativa. Dobbiamo riportare il fatto che molti pazienti che si sono rivolti presso i nostri centri di diagnosi e trattamento erano “reduci” da trattamenti psicoterapici e/o farmacologi, il più delle volte con antidepressivi, stabilizzatori dell’umore e, a volte, con farmaci neurolettici. In alcuni contesti medicali di tipo psichiatrico il solo contenuto “suicidio” veniva considerato clinicamente grave e, in alcuni casi, visto come un’alterazione ai limiti della “psicosi”. In diverse occasioni diversi pazienti avevo subito almeno un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio).

Nell’ideazione suicidaria, invece, il suicidio viene vissuto soggettivamente come un tentativo di soluzione ad una sensazione di disagio, come una specie di liberazione da un vissuto di costrizione nel quale il soggetto non si sente più agente nel suo ambiente, non più costruttore attivo della propria realtà. Nell’ideazione suicidaria il soggetto, in qualche misura, desidera uccidersi o, comunque, il suicidio rientra tra una delle sue possibili intenzioni. Questa differenza è importante sia sul piano clinico che sul piano sociale. Nel caso del pensiero ossessivo di suicidio è la persona stessa che richiede l’intervento psicologico che, fortunatamente oggi, seguendo i principi della nostra teoria e applicando metodi di psicoeducazione funzionale associati allo strumento clinico-sanitario del colloquio psicologico (quindi senza farmaci e senza psicoterapia), si è dimostrato un intervento piuttosto breve e con ottime aspettative di efficacia in termini di riabilitazione funzionale quindi di remissione sintomatologica spontanea. Nel caso invece dell’ideazione suicidaria, che come detto è vista dal soggetto come soluzione, è più raro che sia la persona stessa a richiedere l’intervento psicologico per la questione del suicidio, magari sono più i familiari, il partner o altre persone vicine a spingere, se non a obbligare, a un trattamento.

In psicologia emotocognitiva si valutano i processi funzionali che sottendono la manifestazione disfunzionale senza focalizzazione sui contenuti simbolici. Un pensiero di “suicidio” di natura ossessiva è sempre e soltanto un pensiero “X” con caratteristiche ossessive. Ciò che distingue il pensiero ossessivo di suicidio dall’ideazione suicidaria è il fatto che nel primo caso la persona teme di poter commettere suicidio, ha paura del suo stesso pensiero di suicidio. Il pensiero è intrusivo completamente estraneo alle reali intenzioni del soggetto e va trattato come ogni pensiero ossessivo indipendentemente dal contenuto. Le vecchie impostazioni psicologiche invece si “accaniscono” sul contenuto senza comprendere il “processo psicofisiologico” che lo sottende.

Occorre specificare che l’ideazione suicidaria può essere distinta in due grandi gruppi. In un primo gruppo rientrano le persone realmente intenzionate al suicidio. Generalmente la persona che fa parte di tale “cluster” non comunica l’idea o la comunica soltanto a persone che in qualche modo potrebbero diventare “complici”. In un secondo gruppo rientrano quelle persone per le quali l’idea è palesemente espressa se non utilizzata in modo manipolatorio dove possono essere presenti anche frequenti tentativi di suicidio o atti autolesivi. In tale caso il soggetto o è spinto al trattamento dai familiari oppure potrebbe subire dei ricoveri coatti, dei trattamenti sanitari obbligatori (TSO) i quali, va precisato, non reputiamo funzionali per la risoluzione del problema, né per la sua prevenzione né per il suo contenimento. In questi casi sono quindi i genitori, i figli o il partner del soggetto che chiedono un intervento, un aiuto sul come gestire la situazione. Ci rendiamo conto che in assenza di “altre soluzioni” i familiari si trovano in una condizione di dover optare per una scelta rapida basata sull’idea di rischio. Per questo motivo è importante un’educazione primaria su vasta scala.

Per situazioni nelle quali chi manifesta il sintomo tende a evitare trattamenti o utilizza la “minaccia di suicidio” come tentativo manipolatorio, sono stati messi a punto specifici trattamenti, sia psicologici sia educativi, definiti indiretti. Gli interventi sono sempre basati sui principi della psicologia emotocognitiva e coinvolgono in genere un familiare al quale lo il professionista formato nella teoria emotocognitiva, fornisce, dopo valutazione sistemico-funzionale, delle chiare e dirette indicazioni di comunicazione e comportamento tese a far fronte alla situazione all’interno del normale contesto di vita della persona che manifesta il problema. Il fine è tentare di scardinare i processi sistemici che potrebbero sostenere o aggravare la situazione. Tutto ciò avviene in modo appunto indiretto, senza la presenza diretta del portatore del problema e a sua completa insaputa. Questo perché i cambiamenti di comunicazione e comportamento del familiare nei confronti di chi manifesta il problema devono essere percepite come “farina del sacco” nel familiare e non suggerite da un professionista esterno altrimenti perderebbero di valore ai fini della soluzione del disagio.

Prendendo come riferimento un testo descrittivo dei disturbi mentali, quale il DSM-IV-TR (APA, 2000) o l’ultima versione DSM-5 (APA, 2013), notiamo che l’ideazione suicidaria è presente quale sintomo sia nei pazienti con diagnosi di disturbo dell’umore sia in pazienti con diagnosi di disturbo di personalità, in particolare il disturbo borderline di personalità.

Nel caso di pazienti con diagnosi di disturbo dell’umore come il disturbo depressivo maggiore o il disturbo bipolare, l’ideazione suicidaria può essere sia espressa come forma di lamentela sia non espressa, mentre nei pazienti con diagnosi di disturbo borderline di personalità, nella maggior parte dei casi, l’ideazione suicidaria è espressa ed utilizzata come “minaccia/ricatto” per obiettivi manipolatori come, ad esempio, tentativi di insinuare sentimenti di colpa negli altri, più o meno significativi, e quindi condizionarne le scelte e renderli in qualche modo dipendenti. Nei soggetti con diagnosi di disturbo borderline di personalità sono spesso presenti sintomi di autolesionismo, come tagliarsi, o causarsi altre forme di lesione (es. bruciature di sigaretta, contusioni, ecc.).

In questo caso le teorie emotocognitive sono molto chiare e invitano i professionisti della salute, come medici e psicologi, a non focalizzare l’attenzione su apparenti differenze interpretative di tipo simbolico legate ai contenuti di pensiero o alle differenze simboliche di rappresentazione associate a differenti modalità autolesive o a differenti oggetti utilizzati. Le differenze di contenuto non cambiano la natura dei processi organizzativi e psicofisiologici che, invece, rimangono sempre gli stessi. Un intervento basato sui contenuti basato sull’interpretazione simbolica, quindi del tutto arbitrario ed opinabile, oltre ad essere poco utile, potrebbe in realtà rendere il paziente dipendente dal trattamento, inserirlo in un sistema interpretativo viziato dalle ideologie filosofiche del clinico ed alimentare il problema anziché scardinarlo. L’attenzione sui processi organizzativi, che ricordiamo sono specie-specifici, sempre uguali per ogni membro di una stessa specie con poche variabilità forse tra i sessi, aiutano meglio la comprensione del fenomeno e permettono di ottenere una maggiore efficacia nei trattamenti che, non lavorando più sul soggettivismo e sull’interpretazione simbolica, permettono alla clinica psicologica e all’educazione funzionale di non rimandare più variabili astratte, come la peculiare personalità del clinico o ad altri aspetti soggettivi, l’efficacia del trattamento che, invece, deve risultare basato su applicazioni tecniche, dotate di verificabilità e predittività.

La psicologia emotocognitiva, come forma di psicologia scientifica, è in antitesi rispetto all’impostazione metafisica della psicologia filosofica. Essendo però l’impostazione filosofica ancora dominante in alcuni ambienti accademici (e in ambienti istituzionali come addirittura alcuni ordini professionali), altro non ci si può aspettare che atti di censura rispetto a chi, come noi, cerca di proporre una visione più tecnica e pragmatica nell’ambito degli studi psicofisiologici. Questo è importante quando si parla di salute perché i cosiddetti “luminari” accademici spesso ignorano quanta innovazione ci sia al di fuori delle loro conoscenza e, lo sappiamo tutti, la loro posizione “politica” potrebbe condizionare l’intero sistema della salute.

Errate convinzioni promosse da ambienti accademico-istituzionali potrebbero diffondersi facilmente nell’intero sistema sanitario come uniche verità danneggiando la salute di tutti. Infatti una cosa è certa: oggi i casi di suicidio sono in aumento, soprattutto i casi di suicidio allargato o omicidio-suicidio e i casi di suicidio tra i giovani adolescenti o neo-adulti. Si abbassa quindi l’età del suicidio (che, guarda caso, segue l’aumento di somministrazione di psicofarmaci in età pre-puberale e adolescenza) quindi si allarga la base e in alcuni contesti, come le carceri o in contesti altamente strutturati con scarse possibilità di scelta individuale, sono fenomeni all’ordine del giorno. Questo ci fa capire come il dominio delle teorie accademiche applicato nelle diverse forme di organizzazione politico-sociale abbia portato al fallimento dei programmi di prevenzione fino a ora adottati. E’ necessario iniziare a comprendere che il fenomeno del suicidio può essere studiato sotto altri punti di vista e, anziché censurare, sarebbe necessario iniziare ad ascoltare chi propone innovazione in ambienti diversi da quelli accademici, in ambienti cioè più liberi e svincolati dai giochi di potere politico-economici. Qui in gioco, lo ripeterò sempre con forza, c’è la salute di ognuno di noi, c’è la nostra vita e non è certo una nota retorica, perché in Italia e nel mondo c’è chi continua realmente a morire per gli errori conoscitivi di alcuni gruppi con potere decisionale dominante.

Il nostro spostamento di ottica dal contenuto simbolico allo studio dei processi organizzativi sistemici, cambia nettamente il modo di approcciare alla questione. Il processo alla base di una manifestazione sintomatologica, quindi anche alla base del pensiero ossessivo di suicidio così come dell’ideazione suicidaria, risulterà sempre lo stesso e inscrivibile nello schema del “loop disfunzionale” (Baranello, 2006a) e negli schemi emotocognitivi da esso derivati. Abbiamo più volte sostenuto che anche il disturbo borderline di personalità potesse essere meglio compreso attraverso lo schema del loop disfunzionale quindi essere un tratto apparentemente impulsivo di un processo di natura fobico-ossessiva (Baranello, 2009) e l’ideazione suicidaria, così come l’autolesionismo o l’atto stesso del suicidio, essere meglio compresi come azioni di natura compulsiva tesi a ridurre uno stato di sofferenza primaria (Baranello, 2006b) legato ad ansia generalizzata o situazionale o a pensieri intrusivi contrari, o comunque distanti, alle aspettative del soggetto. Possiamo così inscrivere nello schema del loop disfunzionale entrambi i fenomeni, infatti tutti i soggetti rispondono in modo diretto alla sensazione di perdita di controllo attraverso un’azione di contrasto (che per inciso non produce reali effetti ma incastra il soggetto proprio nel loop). Il processo, lo schema concettuale di studio del fenomeno, rimane quindi sempre lo stesso, valido per ogni situazione. Il clinico o l’educatore hanno necessità di non cadere nella trappola dei contenuti simbolici. L’esperienza con molti allievi dei corsi di psicologia emotocognitiva ci ha permesso di constatare che, nonostante la formazione, molti professionisti si lasciano “sedurre” dai contenuti simbolici legati alla manifestazione di un disagio. Per questo è importante una continua supervisione dei professionisti implicati nelle relazioni d’aiuto e una loro formazione continua. Un cambiamento di prospettiva di questa portata, rispetto alle convinzioni che ancora dominano la vecchia psicologia insegnata nelle classiche accademie, ha infatti necessità di un lungo e assiduo addestramento per poter essere realmente acquisito da un professionista del settore e prevenire così possibili errori applicativi.

In pratica la psicologia emotocognitiva si distingue chiaramente rispetto ai vecchi concetti simbolisti. Così ogni giustificazione, ogni “perché” astratto, ogni interpretazione dei contenuti, è, dal nostro punto di vita, assolutamente superflua e potenzialmente dannosa sul piano pratico. Gli psicologi a orientamento di psicologia emotocognitiva non passano le ore, le settimane, i mesi e gli anni ad ascoltare più o mano passivamente il paziente come avviene in certi altri contesti come le varie forme di psicoterapia ad approccio filosofico. Nei trattamenti di riabilitazione funzionale secondo i modelli emotocognitivi, i tempi d’intervento sono molto ridotti in relazione al numero di sedute complessive e la frequenza degli incontri con il professionista della salute è assolutamente variabile in relazione alla risposta del trattamento. Anche l’ascolto passivo è ridotto all’essenziale mentre è preponderante la parte psicoeducativa svolta dal professionista psicologo. Per noi chi ancora focalizza l’attenzione sui contenuti simbolici, parlando del passato o di strane cause inconsce, si allontana dalla comprensione della realtà dei fatti, anzi, avvertiamo con decisione e fermezza, che l’attenzione rivolta al simbolismo, ai contenuti relativi alle esperienze del passato o alle relazioni pregresse, potrebbe in realtà essere addirittura patogenetica, creare cioè il problema o esacerbarlo anziché rispondere in modo pragmatico e in tempi sostenibili alle richieste sanitarie di riabilitazione dell’utenza e della società.

Occorrerebbe evitare quindi di inabissarsi in questioni “metafisiche”. Il simbolismo esiste per la persona ma non ha, secondo noi, alcun valore sul piano del trattamento che, invece, deve poter rimanere tecnico, orientato al ripristino di una normale condizione di salute. Il nostro atteggiamento dovrebbe essere quello di sostenere la persona verso l’autodeterminazione, verso la libertà di scelta rispetto al contenuto simbolico, etico e morale, della propria vita. Non utilizzare aspetti metafisici di una propria ideologia e calarli sul paziente. Metaforicamente “se una persona fosse affetta da una patologia cardiaca, al cardiologo non deve importare nulla per chi, simbolicamente, batte quel cuore. Il medico-chirurgo, tecnicamente, dovrà aiutare la persona a far funzionare ancora quel muscolo. Sarà poi la persona, soggettivamente, a scegliere per chi (o cosa) far battere il suo cuore!” (Baranello, lezioni). Il processo di funzionamento del cuore è infatti sempre lo stesso ed è indipendente dalla simbologia (per chi batte). Non si capisce perché nelle scienze psicologiche non debba valere lo stesso! Ormai tutti sappiamo che non esiste la “mente” in termini astratti e ogni atteggiamento teso a separare “mente” e “corpo” è ormai anacronistico. Quindi l’organismo risponde attraverso le sue funzioni ai processi organizzativi che saranno sempre considerati psicofisiologici (unità inscindibile, simultaneità delle funzioni di un organismo).
Per la psicologia emotocognitiva la vera causa di un problema non è né nel passato né in cause simboliche, ma è da rintracciarsi nell’esatto qui-e-ora in cui comunque il problema, il sintomo o il disturbo si manifestano. Questo per il principio di simultaneità tra causa ed effetto, uno dei postulati fondamentali della teoria emotocognitiva. Infatti è qui-e-ora che si manifesta un problema indipendentemente da quanti problemi ci siano stati nel passato. Ogni problema “del passato” è stato un problema nel qui-e-ora di quando quel passato era presente. È pertanto sempre nel qui-e-ora che le cause stanno realmente agendo, ovvero, causa ed effetto sono sempre simultanei, presenti contemporaneamente ovvero “nel qui-e-ora causa ed effetto non esistono”. È molto improbabile che una causa sia da rintracciare nel passato della persona o in bizzarre ipotesi simboliche. Dobbiamo constatare che molti professionisti in ambito psicologico ancora confondo “la reale causa” di un problema con “gli elementi scatenanti”. È così altrettanto improbabile che siano necessari lunghi anni di trattamento in quanto, scardinando i processi che stanno mantenendo il problema oggi, si apre la strada alla riabilitazione funzionale, al futuro della remissione sintomatologica spontanea quindi alla cura.

Per sintetizzare rispetto al contenuto suicidio ricordiamo che il pensiero di suicidio di natura ossessiva ha la caratteristica di essere intrusivo per il soggetto, quindi non voluto. In questo caso è lo stesso pensiero a causare ansia quindi disagio ed il soggetto si sentirà, in qualche modo, costretto a mettere in atto azioni di pensiero o di comportamento tese a ridurre tale stato di disagio, azioni che, come ben spiega la psicologia emotocognitiva, non sortiscono un reale effetto nella soluzione del problema ma, anzi, rappresentano proprio ciò che contribuisce al mantenimento o aggravamento dello stato di disagio. Nell’ideazione suicidaria, invece, il pensiero di suicidio è visto come un tentativo di soluzione, a volte come l’unica soluzione, altre volte come una delle possibili soluzioni, per il soggetto, di annullare uno stato di disagio che, il soggetto, vive come non modificabile. In altri casi l’ideazione suicidaria o il tentativo di suicidio, come nei soggetti con diagnosi di disturbo borderline di personalità, possono avere funzioni manipolatorie, tese a condizionare gli altri ovvero l’ambiente di vita del soggetto. In quest’ultimo caso può essere più raro che il suicidio venga commesso anche se alcuni di questi casi possono esitare, a volte solo per errore, in un vero e proprio atto di suicidio.

Suicidio in risposta alla perdita del senso di volizione

Perché si commette suicidio? Ovvero quali processi portano alla genesi dell’atto suicidario? In ogni caso l’atto del suicidio è sempre un’azione che si svolge in pochissimo tempo per quanto si possa programmare e si basa sempre sugli stessi processi organizzativi. La programmazione infatti è una sequenza generata da una primaazione a cui seguono altre azioni direttamente collegate. Quando l’organismo programma una sequenza, dobbiamo ricordarlo, il tentativo di inibizione volontaria della stessa produce un incremento tensivo che tende ad esitare proprio nell’azione indipendentemente se essa sia funzionale o meno. Dietro ad una programmazione di un suicidio, compresi i “suicidi-omicidi” dovrebbe esserci in genere una tendenza del soggetto al controllo personale ed interpersonale e chiari tratti ossessivo-compulsivi di personalità a cui spesso si può associare umore depresso. Il soggetto con tratti ossessivi di personalità generalmente non ha, soprattutto in giovane età, tendenze anticonservative, ma le sue tendenze idealiste, perfezioniste e di controllo diretto spesso si scontrano con una realtà diversa e, dalla mezza età, e più probabilmente in tarda età, può arrivare ad atteggiamenti depressivi che orientano il soggetto a scelte anticonservative, all’ideazione suicidaria o all’atto stesso del suicidio. Tutti i soggetti infatti, avvertendo una perdita di controllo rispetto alle proprie aspettative o riceventi un feedback negativo rispetto al proprio pensiero e alle proprie azioni, tendono ad alimentare un forte stato tensivo (tensione in termini fisici e non simbolici). Tale stato tensivo, coinvolgendo diversi distretti corporei, soprattutto muscolari, si risolve sempre in un’azione, anche psicosomatica, tesa a ristabilire un processo di equilibrio dinamico che, la teoria emotocognitiva, definisce armonica (Baranello, 2010). La programmazione nei soggetti con tratti di personalità ossessivi rappresenta un tentativo di controllo volontario su situazioni, quindi sensazioni, che il soggetto sperimenta non gestibili direttamente sulle quali, cioè, non è in grado di agire alcun potere.

Nei soggetti più impulsivi in genere manca la programmazione e la sensazione di perdita di controllo diretto ovvero di non essere agente nel proprio ambiente può esitare più rapidamente e con più frequenza in atti autolesivi, ideazione suicidaria fino all’ultimo gesto del suicidio.

Questo tipo di processo è quindi comune sia al suicidio programmato che a quello definito “impulsivo”. Il suicidio programmato o gli omicidi-suicidi programmati sono, secondo le nostre teorie, azioni più facilmente riconducibili a persone con forti tratti ossessivo-compulsivi di personalità in una posizione depressiva.

Sia il suicidio programmato che quello impulsivo, sia l’ideazione suicidaria, fanno capo sempre a processi in cui sembra inibita la possibilità diretta della persona di essere, in un determinato momento, più o meno lungo, agente rispetto alla propria esperienza.
Possiamo ora comprende perché persone in cura per depressione possano tentare il suicidio proprio durante la cura che, quindi, possiamo definire in quel caso una pseudo-cura, o durante i ricoveri. Allo stesso modo si può comprendere perché sia alto il tasso di suicidio nelle carceri o in contesti in cui la persona perde la capacità di poter esprimere attraverso azione il proprio pensiero o in contesti sociali (quartieri, città, nazioni,…) in cui ci sia una forte tendenza al controllo sociale, difficoltà di azione o cambiamento.

Una considerazione importante riguarda i suicidi in quelle persone che vengono socialmente etichettate come “malati mentali” e quindi costretti a trattamenti sanitari obbligatori o ad inserimenti in alcuni contesti di cura in cui perdono il diritto all’autodeterminazione. La maggior parte delle persone guarda alla loro situazione dal punto di vista di un’azione tesa alla loro tutela e salvaguardia senza più considerarli realmente esseri umani con esigenze psicofisiologiche uguali ad ogni altro essere umano. Questi soggetti spesso non vengono neanche ascoltati, vengono trattati come se qualsiasi cosa dicessero o pensassero fosse legata al loro stato di disagio. Un’etichetta sociale, in questo caso, è per sempre! In questi soggetti la perdita del senso di volizione, inteso come la capacità di essere direttamente artefice della propria esperienza, è davvero limitato e l’ideazione suicidaria non è infrequente.

Immaginate che tutto ciò che avete sempre pensato e ritenuto vero fosse considerato da altri falso, che il vostro stato fosse considerato da altri come una malattia e vi costringessero a trattamenti che voi non avreste mai scelto, vi costringessero in comunità, vi costringessero a svolgere attività fuori dal vostro interesse, siete proprio sicuri che vedreste in tutto questo un qualcosa fatto per il vostro bene?
L’ottica che cerchiamo di proporre, dal punto di vista emotocognitivo, è l’ottica relativa a chi fa l’esperienza, al soggetto come centro del proprio campo e universo sistemico. Già Basaglia aveva capito tutto questo anche se ancora confidava nell’industria dei farmaci.
Oggi molti psicofarmaci e molte psicoterapie potrebbero essere considerati i “nuovi manicomi”? Dire una cosa simile in questo momento storico, sarebbe come dire di chiudere i manicomi ai tempi di Basaglia, attiverebbe immediatamente la reazioni di chi si sentisse toccato in prima persona, di chi avesse basato il proprio potere e i propri interessi su vecchie concezioni. Ma quando la cura diventa una costrizione, quando il soggetto perde la capacità di essere realmente attivo nelle proprie scelte, ecco che nell’organismo umano si attiva un processo di incremento tensivo che, come abbiamo spiegato, deve esitare in un’azione.

Quando il soggetto inizia a sperimentare che ogni sua azione, ogni pensiero, ogni comportamento non possono essere finalizzati, trovano censura o inibizione, e non ci sono canali alternativi di soluzione, molto spesso, emerge nel soggetto la sensazione di perdita completa del senso di volizione. Chi riesce a trovare, grazie alle proprie risorse “temporali”, un processo di riorganizzazione funzionale, potrebbe trovare nuove soluzioni e tornare a sperimentare senso di volizione relativo, ma chi invece non ha risorse (anche ambientali), inizierà a sperimentare una totale perdita del controllo rispetto al proprio ambiente, a se stesso.

Ogni azione anche sociale che mirasse a limitare l’autodeterminazione di un soggetto porta in se un altissimo rischio patogenetico impedendo di fatto all’organismo di attivare i suoi naturali processi di scambio. Un pensiero genera immediatamente attivazione dei processi di azione che, se inibiti, portano ad incremento tensivo fino ad esitare in vere e proprie patologie tra cui disturbi dell’organizzazione psicofisiologica ed esiti definiti “psicosomatici” per arrivare anche all’ideazione suicidaria. L’ideazione suicidaria trova quindi terreno fertile in ogni condizione in cui un essere vivente, in questo caso un essere umano, ma anche una coppia, una famiglia o addirittura un gruppo, si trovasse in uno stato di inibizione rispetto alla propria autodeterminazione, in cui venissero meno processi di scambio e di mutua-regolazione, indipendentemente dal contenuto della specifica situazione.

Maggiore è la distanza tra le aspettative del soggetto in termini di scelta nel proprio campo di esperienza e la realtà che si pone in antagonismo maggiore è la sensazione di perdita di controllo e perdita del senso di volizione e più alto il rischio patogenetico e quindi anche di ideazione o atto suicidario. Ogni tipo di valutazione funzionale deve necessariamente tenere in considerazione il campo in cui fa esperienza il sistema di riferimento. Comunque, indipendentemente dai contenuti, il processo di attivazione che può esitare nel suicidio è sempre lo stesso. In questo contesto quindi non esiste la formula retorica “si è ucciso perché….”. Il perché psicofisiologico per cui una persona potrebbe tentare o attuare il suicidio è sempre lo stesso anche se il contenuto simbolico, psico-sociale, potrebbe apparire diverso.

Quando sentiamo “si è ucciso perché lasciato dalla moglie” o “si è ucciso perché ha subito un’ingiustizia” o “si è suicidato perché ha perso il lavoro” o “si è suicidato perché ha preso un brutto voto” o “si è ucciso perché la sua azienda è fallita” va trasformato in “si è ucciso perché rispetto alle proprie aspettative e all’investimento delle proprie risorse considerate dal soggetto “vitali” nella direzione delle già indicate aspettative, la realtà in cui si è trovato si è manifestata in forte antagonismo ed il soggetto non possedeva, in quel momento, strumenti (conoscitivi, psicologici e/o ambientali) per risolvere lo stato tensivo emergente. Di fatto all’ideazione suicidaria “spontanea” ha fatto seguito un’azione comportamentale associata allo stato di disagio percepito dal soggetto poi esitata nel suicidio”.

Il suicidio quindi non solo può essere meglio compreso da un punto di vista dei processi funzionali dell’organismo ma può anche essere prevenuto attraverso consistenti modificazioni sociali, programmi di educazione funzionale basati su queste nuove acquisizioni nel campo del funzionamento sistemico. È anche possibile trattare in modo efficace coloro che sono a rischio di suicidio o inseriti in contesti ad alto rischio come le carceri. Non è comunque sufficiente fare riferimento ad uno psicologo o ad un educatore è necessario riferirsi a chi sappia realmente applicare tali nuove teorie. Serve oggi ritornare al valore della competenza e del merito. Infatti, in campo delle politiche sociali e della salute, spesso si tende a incrementare soltanto la spesa (pensiamo alla spesa sanitaria) senza organizzarla in modo funzionale, senza cioè fare riferimento ad una verificabile competenza mentre ci si lascia influenzare da titoli e posizioni. I finanziamenti sono sicuramente necessari ma è necessario anche sapere cosa si stia realmente finanziando perché, alla fine, è soltanto il risultato, quello concreto, che può giustificare una consistente spesa sociale che potrebbe essere notevolmente ridotta, se si adottassero nuove concezioni e nuove metodologie d’intervento quindi si orientasse la spesa verso ciò che, sul territorio, sia realmente una competenza.

L’Educazione Funzionale nella Prevenzione del Suicidio

L’educazione come forma di cura primaria, è da sempre il “motto” degli interventi in cui vengono applicati i principi della teoria emotocognitiva. Ma cosa significa educare. Va precisato che c’è una netta differenza tra educazione e istruzione. L’istruzione è il fornire comandi e la verifica dell’istruzione è basata sul controllo che tali comandi siano stati appresi così come sono stati impartiti. L’istruzione è molto rapida da apprendere e da applicare perché non necessita della reale conoscenza del sistema ed infatti ha limite nel momento stesso che essa non risultasse adeguata a causa di imprevisti o in caso di errori di apprendimento. Il libretto di istruzioni, ad esempio, di un qualsiasi prodotto ci permette di utilizzare quel prodotto ma non permette la sua completa conoscenza. Infatti siamo tutti in grado di prendere un farmaco o usare un telefono pur non sapendo come funzionano quindi non sapendoli, eventualmente, riprodurre.
L’educazione è tutt’altro. Per educazione si intende il “liberare”, il “tirare fuori” quindi rendere accessibile e di conseguenza gestibile la conoscenza. L’educazione funzionale di cui siamo forti promotori e sostenitori è una forma di educazione che possa portare alla comprensione quindi alla gestione delle funzioni di un sistema e rendere così funzionale la conoscenza acquisita da parte dell’osservatore quindi anche del sistema che osserva se stesso. È pertanto necessario operare nell’ambito dell’informazione basandosi, di volta in volta, sulle acquisizioni relative al funzionamento sistemico, non limitare la conoscenza e rendere accessibile l’informazione a 360°. Istruzione ed educazione vanno quindi utilizzate integralmente. L’istruzione permette di far fronte in modo rapido a problemi già individuati da altri, l’educazione permette di valutare la reale funzionalità delle istruzioni, crearne di nuove, ribaltare i presupposti circa il funzionamento delle cose e quindi permettere una completa gestione del sistema su cui si agisce, se stessi compreso.
Educare alle funzioni dell’organismo permette così di conoscerne i processi organizzativi, il “come” del suo funzionamento. Per prevenire il fenomeno del suicidio ovvero ridurre la manifestazione a livello sociale non è necessario parlare direttamente del suicidio e dei suoi contro, che, anzi, secondo i processi individuati dal paradigma emotocognitivo, rischia in alcuni casi di generare il fenomeno anziché risolverlo. Parlare di suicidio è solo funzionale affinché si possa realizzare un vero e proprio programma per la sua prevenzione che, in realtà dovrebbe essere un programma di educazione funzionale generale il cui obiettivo è di fatto la prevenzione di ogni azione che possa nascere da un processo organizzativo disfunzionale.

Esistono comunque nella società umana fenomeni come l’eutanasia che sono attualmente in discussione. Non possiamo quindi partire dall’idea assolutista che il suicidio sia sempre un atto condannabile in quanto altri esseri umani potrebbero dichiarare l’opposto.
L’obiettivo di questo articolo è quello di fornire indicazioni sulle possibilità di prevenzione di quelle forme di suicidio che sono esiti di un processo disfunzionale e che, infatti, a seguito di trattamenti di educazione funzionale per mezzo di strumenti quali il colloquio psicologico hanno portato all’estinzione del pensiero o dell’ideazione suicidaria quindi ad una riabilitazione funzionale. Trattamenti realmente efficaci potrebbero anzi, nel futuro, chiarire se il fenomeno che di volta in volta ci troveremo a trattare, sia davvero un reale problema da risolvere.

Rimaniamo della ferma convinzione, mutuata dalle teorie emotocognitive, che ogni sistema tenda ad organizzarsi per il proprio sviluppo e mantenimento dinamici (in senso evolutivo) e che, a differenza del pensiero ossessivo di suicidio, ogni ideazione suicidaria sia vissuta, a torto o a ragione non sta a noi giudicarlo, in quel momento dal soggetto, come un tentativo di soluzione ad una perdita del senso di volizione, ad una perdita dell’autodeterminazione, sia essa legata ad una malattia cronica o degenerativa, sia essa legata ad una situazione che potrebbe essere transitoria, sia essa legata all’idea che non esistano altre soluzioni, è sempre soggettivamente vissuta come un tentativo di stare meglio, di risolvere una sofferenza che abbiamo più volte definito sofferenza primaria (Baranello, 2006b). Chi ha un reale pensiero suicida penserà al suicidio da vivo. La persona quindi ipotizza, pensando alla sua morte, l’annullamento della sofferenza, quindi vedendo nella morte una soluzione. Questa sensazione è però necessariamente legata al momento in cui il soggetto la sta pensando, quindi da vivo, e non da morto. Il suicidio diviene così il paradosso per cui cerchiamo nella morte un benessere che comunque, se dovessimo morire, non potremmo mai realmente sperimentare!

L’educazione funzionale sulla quale si focalizza l’intervento in psicologia emotocognitiva ha l’obiettivo di far percepire alla persona una maggiore sensazione di autonomia e libertà di scelta al di fuori dell’ideazione suicidaria. Un obiettivo possibile proprio grazie a un approccio psicoeducativo associato a specifiche tecniche di comunicazione. Occorre far oltrepassare l’errata convinzione che il suicidio possa rappresentare una sorta di soluzione quando in realtà, oggi, si potrebbe trovare una soluzione, vera e in tempi brevi, al problema che sembra stimolare nella persona il pensiero di suicidio. È indispensabile iniziare a pensare, grazie anche ai contributi delle nuove acquisizioni sul funzionamento dell’organismo proposte dalla psicologia emotocognitiva, a nuovi programmi di educazione funzionale da inserire nei contesti educativi di qualsiasi ordine e grado al fine di prevenire il suicidio patologico così come altre forme di disturbi della salute psicofisiologica e quindi della salute sociale. Iniziare oggi significa muoversi per il futuro. Rimandare l’inizio del cambiamento significherebbe impedire alle nostre attuali generazioni, o a quelle immediatamente successive, di usufruire di qualcosa che esiste ed è disponibile per tutti già da ora.

a cura di
Dott. Marco Baranello

come citare questa fonte scientifica:

Baranello, M. (2011)
Comprensione e prevenzione del suicidio nella teoria emotocognitiva.
Psyreview, www.psyreview.org/?p=105. Roma, 01 marzo 2011.

Bibliografia di Riferimento

APA (2000) Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, IV edizione text revision (DSM-IV-TR). Masson, Milano 2001.

Baranello, M. (2006a) Psicologia emotocognitiva: il loop disfunzionale. SRM Psicologia – Psyreview.org. Roma, 10 marzo 2006.

Baranello, M. (2006b) I concetti di sofferenza primaria e sofferenza secondaria in psicologia emotocognitiva. SRM Psicologia – Psyreview.org. Roma, 26 giugno 2006.

Baranello, M. (2009) La psicologia emotocognitiva nel trattamento psicologico del disturbo borderline di personalità. Bollettino Scientifico-Professionale A. 4 N. 1, 9 maggio 2009. SRM Psicologia, Roma 2009.

Baranello, M. (2010) Paradigma Emotocognitivo. Sistemi funzionali antagonisti, principi di simultaneità e legge emotocognitiva dell’armonizzazione. Psyreview Edizioni. Roma 10 novembre 2010.

Redazione Psyreview
Redazione Psyreview

dal 1999 aperiodico online di psicologia scientifica. Articoli e libri di scienze psicologiche, psicologia clinica e di comunità, psicologia emotocognitiva, psicologia dell'età evolutiva, dello sviluppo, della famiglia e della salute, psicofisiologia clinica, sessuologia clinica, educazione scientifica, disturbi mentali, psicopatologia generale e della personalità.Da sempre attenti all'innovazione scientifica in ambito psicologico. La scienza ha quale obiettivo il miglioramento delle condizioni di vita di tutti, quando perde di vista tale missione non è più scienza, quando l'innovazione viene oscurata non c'è più libertà di scelta.

Articoli: 10

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *