Comprensione e
prevenzione del suicidio nella teoria emotocognitiva |
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Marco Baranello
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Abstract. Perché
si commette suicidio? È possibile creare programmi sociali
per prevenirlo? Quali sono i fattori di rischio e come si
può realmente agire per riabilitare coloro che hanno
pensieri di suicidio, ideazione suicidaria o che hanno
tentato o continuano a tentare il suicidio? In questo
articolo, di enorme importanza sociale, il Dott. Baranello,
fondatore della teoria emotocognitiva, partendo proprio dai
principi di tale nuovo gruppo di conoscenze a acquisizioni
in ambito scientifico, ci parlerà di come sia necessario
cambiare radicalmente ottica rispetto alle vecchie
conoscenze sul funzionamento psicofisiologico dell’organismo
umano se si vuole realmente realizzare qualcosa di concreto
nella prevenzione del suicidio. Per Baranello la principale
forma di cura primaria, quindi di prevenzione, è
un’educazione funzionale che sia basata su reali e chiari
presupposti scientifici in materia, su nuove scoperte. Per
prevenire l’atto del suicidio, oggi, è necessario quindi
rivedere i presupposti che hanno fino ad ora condizionato i
vecchi programmi preventivi e riabilitativi. Baranello
segnala di come, soprattutto mediaticamente, quando si sente
parlare di suicidio commesso da una persona in cura per
depressione o altre condizioni cosiddette “mentali”, si
associ in modo molto superficiale il suicidio a tali
disturbi mentre, se la persona era già in cura per la
depressione ad esempio, forse avrebbe senso anche pensare
che la cura non stesse funzionando ed anche lecito pensare
che potrebbe essere la stessa cura ad avere valore
patogenetico. Se fosse così avrebbe senso portare avanti
cure non realmente efficaci se non gravemente patogene?
Quando una cura non risulta efficace, sostiene Baranello,
forse è perché si basa su teorie non del tutto esatte se non
errate. La teoria è la premessa che permette di costruire
gli interventi, una teoria non adeguata porterà come
conseguenza un intervento altrettanto inadeguato. Il vero
grande ostacolo al cambiamento, all’innovazione scientifica
in grado di aiutare a risolvere molte questioni ancore
irrisolte, arriva sempre da chi, nelle classiche sfere di
potere accademico dominante, vede nell’innovazione la
minaccia al proprio potere. Attraverso il braccio “armato”
di chi ha potere decisionale e sanzionatorio, tali sfere di
potere, cercano di annullare l’innovazione perché metterebbe
in pericolo il loro stesso potere, il loro business, anche
se l’innovazione potrebbe salvare vite umane. In questo
articolo si prende una chiara posizione rispetto al tema del
suicidio, alla sua prevenzione sociale e alla possibilità di
riabilitazione di chi è afflitto da pensieri ed ideazione
suicidaria. Stiamo permettendo alle istituzioni di essere
nella posizione di poter scegliere, se continuare a
sostenere vecchie concezioni oppure iniziare ad integrare
l’innovazione proposta. L’obiettivo di questo lavoro è
fornire una conoscenza in più nella letteratura scientifica
sul suicidio.
Premessa
Per una completa ed
attuale comprensione dei “processi” che sottendono i
pensieri, le ideazioni e gli atti suicidari dobbiamo
innanzitutto comprendere con il più alto grado di chiarezza
possibile quali siano le reali funzioni psicofisiologiche
dell’organismo. Per farlo partiremo da quel complesso di
recenti acquisizioni, conoscenze, intuizioni e scoperte noti
come “paradigma emotocognitivo”. Le teorie emotocognitive
hanno infatti cercato di spiegare come l’organismo umano, al
pari di ogni sistema di riferimento, tenda sempre ad
organizzarsi per il proprio sviluppo e mantenimento dinamici
(in senso evolutivo). Ogni azione umana, sia essa
considerata “pensiero” o “comportamento” è il risultato
quindi di tali processi organizzativi. Allo stesso tempo è
necessario definire con chiarezza sia quali siano i processi
organizzativi che potrebbero avere esisto in un’azione
suicidaria sia spiegare la differenza tra pensiero,
ideazione e atto del suicidio.
Nella teoria emotocognitiva non si focalizza l’attenzione
sul contenuto simbolico, sul cosiddetto “significato” che
lasciamo a chi si volesse baloccare con la metafisica, ma ci
si riferirsce, in modo molto pragmatico e scientifico a
quelli che definiamo “i processi di funzionamento” del
sistema di riferimento. Infatti abbiamo più volte ribadito
che, indipendentemente dai contenuti simbolici, che a volte
possono essere così
astratti da risultare nella migliore delle ipotesi del tutto
inutili sul piano pratico, ogni sistema di riferimento può
essere compreso nei suoi processi funzionali che
risulteranno sempre uguali indipendentemente dai contenuti
umanamente interpretati. Lo spostamento di ottica dai
contenuti ai processi, proposto dalla teorie emotocognitive,
ha permesso non soltanto una migliore comprensione delle
attività umane, compreso il tema del suicidio, ma ha anche
permesso di rendere notevolmente più proficui in termini di
efficacia i trattamenti psicologici e più ampiamente quelli
educativi. E’ da questo punto di osservazione, così diverso
rispetto ai vecchi costrutti psicologici che ancora, in
certi ambienti accademici, sono cristallizzati sul
simbolismo, che parleremo di suicidio nei suoi diversi
aspetti fenomenologici ma sempre riferendoci ai processi
psicofisiologici, comuni a tutti i fenomeni, che sottendono
la manifestazione.
Cercheremo di rispondere a domande ad altissimo impatto
sociale come quelle legate alla possibilità di prevenzione
del suicidio o alla riabilitazione funzionale di chi tenta o
abbia tentato il suicidio. Per farlo partiremo, come già
accennato, nel definire cosa sia il suicidio, come può
essere differenziato in base alle funzioni
sistema-specifiche e come i processi funzionali di un
organismo possano esitare nella manifestazione che chiamiamo
“suicidio”.
Una comprensione del fenomeno che permetterà infine di
proporre dei programmi di educazione scientifica funzionale
da applicare a diversi livelli di integrazione sociale.
Parlando di suicidio una cosa è certa, le cure fino ad oggi
applicate, i tentativi di prevenzione messi in atto, non
hanno ridotto il fenomeno sociale. Questo ci fa capire
sostanzialmente che le azioni di cura e prevenzione fino ad
ora applicate fanno riferimento a teorie, quindi a premesse,
che potrebbero essere errate o comunque non adeguate agli
obiettivi di tutela della salute che si sono prefissi. Ecco
allora che le teorie emotocognitive rappresentano oggi un
nuovo modo, nel panorama scientifico, di comprendere il
funzionamento dei sistemi complessi tra cui l’essere umano e
le sue forme di organizzazione sociale. Un cambiamento di
ottica che in alcuni contesti potrebbe risultare una vera e
propria rivoluzione scientifica che, ovviamente, trova nelle
classiche accademie interessate solo a difendere vecchi
poteri, l’unico oppositore istituzionale, forse il più
difficile da abbattere in quanto l’opposizione non avverrà
sul piano della dimostrazione scientifica, come noi
chiediamo, ma avverrà sul piano della censura. Nella storia
ogni censura nasce dalla paura di perdere il proprio potere.
Qui in gioco non c’è l’interesse di pochi al potere, quini
in gioco c’è la tutela del diritto, c’è la salute delle
persone, il diritto di ognuno di noi alla libertà di scelta.
È proprio dove non c’è più scelta, dove viene inibita
l’autodeterminazione, dove c’è perdita di “senso di
volizione”, quindi dove ilsoggetto non è più realmente
artefice diretto della propria esperienza, che nasce
l’ideazione e l’atto del suicidio anche in persone,
socialmente considerate del tutto sane.
Differenza tra Pensiero di Suicidio, Ideazione Suicidaria
e Atto del Suicidio
Negli anni di esperienza clinica presso i centri di
psicologia emotocognitiva abbiamo avuto modo di dimostrare
ai nostri allievi, che spesso arrivavano nella scuola di
psicologia emotocognitiva ancora condizionati dalla loro
vecchia formazione accademica ad impostazione simbolista,
come, attraverso una valutazione dei processi funzionali, la
maggior parte dei pensieri di suicidio dei pazienti che si
recavano direttamente presso i nostri studi di psicologia
per riabilitarsi, fosse inscrivibile nel nuovo schema
concettuale del “loop disfunzionale” (Baranello, 2006a)
proposto dalla scuola emotocognitiva. Il loop disfunzionale
si può definire come lo schema rappresentativo di un
processo di organizzazione ridondante in cui la persona può
trovarsi nel momento in cui le proprie azioni, di pensiero e
comportamento, siano tese ad annullare, attraverso azione
volontaria, un sintomo che il soggetto connota come
“spiacevole”.
Attraverso il nostro schema del “loop disfunzionale” siamo
così riusciti a spiegare ogni tipologia di fenomeno
disfunzionale, spesso confutando la maggior parte delle
vecchie teorie che ancora dominano alcuni ambienti
psicologici istituzionalizzati. Per quando riguarda il
suicidio, nella valutazione dei processi funzionali
adottando lo schema emotocognitivo del loop disfunzionale
abbiamo potuto dimostrare come, indipendentemente dal
contenuto “suicidio” fosse possibile, da una parte,
distinguere nella loro manifestazione tra pensieri di
suicidio, ideazione suicidaria e atto del suicidio e, allo
stesso tempo, ricondurre tali apparenti differenze in un
unico schema concettuale utilizzabile per scopi
riabilitativi. La maggior parte dei pazienti che si è
rivolta presso i nostri centri di psicologia emotocognitiva
per problemi legati al concetto di “suicidio” in realtà
presentava dei pensieri di natura ossessiva dove soltanto il
contenuto era relativo al suicidio ma senza nessuna
ideazione quindi senza nessuna intenzione reale di
commettere atti anti-conservativi. Molti di questi pazienti
erano “reduci” da trattamenti psicoterapici e/o farmacologi,
a volte con anti-psicotici, in quanto il solo contenuto
“suicidio”, in certi ambienti,veniva considerato
clinicamente grave o un’alterazione ai limiti della
“psicosi”.
Nelle teorie emotocognitive la situazione cambia nettamente
in quanto si valutano i processi funzionali senza
focalizzazione sui contenuti simbolici. Un pensiero di
“suicidio” di natura ossessiva è sempre e soltanto un
pensiero “X” con caratteristiche ossessive. Ciò che
distingue il pensiero ossessivo di suicidio dall’ideazione
suicidaria è il fatto che nel primo caso la persona teme di
poter commettere suicidio, ha paura del suo stesso pensiero
di suicidio. Il pensiero è intrusivo completamente estraneo
alle reali intenzioni del soggetto e va trattato come ogni
pensiero ossessivo.
Nell’ideazione suicidaria, al contrario, il suicidio viene
visto come un tentativo di soluzione ad una sensazione di
disagio, come una specie di
liberazione da una sensazione di costrizione in cui il
soggetto non si sente più agente nel suo ambiente, non più
costruttore attivo della propria realtà. Nell’ideazione
suicidaria il soggetto, in qualche misura, desidera
uccidersi o comunque il suicidio rientra tra una delle sue
possibili intenzioni. Questa differenza è importante sia sul
piano clinico che sul piano sociale. Nel caso del pensiero
ossessivo di suicidio è la persona stessa che richiede
l’intervento psicologico che, fortunatamente oggi, seguendo
i principi emotocognitivi ed applicando metodi di educazione
funzionale associati allo strumento clinico-sanitario del
colloquio psicologico (quindi senza farmaci e senza
psicoterapia), si è dimostrato un intervento breve con
ottime aspettative di efficacia in termini di riabilitazione
funzionale quindi di remissione sintomatologica spontanea.
Nel caso invece dell’ideazione suicidaria, che come detto è
vista dal soggetto come soluzione, è più raro che sia la
persona stessa a richiedere l’intervento psicologico per la
questione del suicidio.
Occorre specificare che l’ideazione suicidaria può essere
distinta in due grandi gruppi. Un primo gruppo in cui la
persona è realmente intenzionata al suicidio e in genere non
comunica l’idea o la comunica solo a persone che in qualche
modo potrebbero diventare “complici”, ed un secondo gruppo
in cui invece l’idea è palesemente espressa se non
utilizzata in modo manipolatorio dove possono essere
presenti anche frequenti tentativi di suicidio o atti
autolesivi. In tale caso il soggetto o è spinto al
trattamento dai familiari oppure potrebbe subire dei
ricoveri coatti, dei trattamenti sanitari obbligatori (TSO)
che, va precisato, non reputiamo funzionali per la
risoluzione del problema. In questi casi sono quindi i
genitori, i figli o il partner del soggetto che chiedono un
intervento, un aiuto sul come gestire la situazione. Per
queste situazioni è stato realizzato uno specifico
trattamento psicologico indiretto, sempre basato sui
principi della psicologia emotocognitiva, che coinvolge in
genere un familiare al quale lo psicologo emotocognitivo
fornisce, dopo valutazione sistemico-funzionale, delle
chiare e dirette indicazioni di comunicazione e
comportamento tese a far fronte alla situazione all’interno
del contesto al fine di scardinare i processi sistemici che
potrebbero sostenere o aggravare la situazione. Tutto ciò in
modo appunto indiretto, senza la presenza diretta del
portatore del sintomo, del disturbo o più ampiamente del
problema.
Se prendiamo come riferimento un testo descrittivo dei
disturbi mentali, quale il DSM-IV-TR (APA, 2000), notiamo
che l’ideazione suicidaria è presente quale sintomo sia nei
pazienti con diagnosi di disturbo dell’umore sia in pazienti
con diagnosi di disturbo di personalità, in particolare il
disturbo borderline di personalità.
Nel caso di pazienti con diagnosi di disturbo dell’umore
come il disturbo depressivo maggiore od il disturbo
bipolare, l’ideazione suicidaria può essere sia espressa
come forma di lamentela sia non espressa, mentre nei
pazienti con diagnosi di disturbo borderline di personalità,
nella maggior parte dei casi, l’ideazione suicidaria è
espressa ed utilizzata come “minaccia/ricatto” per obiettivi
manipolatori come, ad esempio, tentativi di insinuare
sentimenti di colpa negli altri, più o meno significativi, e
quindi condizionarne le scelte e renderli in qualche modo
dipendenti. Nei soggetti con diagnosi di disturbo borderline
di personalità sono spesso presenti sintomi di
autolesionismo, come tagliarsi, o causarsi altre forme di
lesione (es. bruciature di sigaretta, contusioni, ecc.).
In questo caso le teorie emotocognitive sono molto chiare ed
invitano i professionisti della salute, come medici e
psicologi, a non focalizzare l’attenzione su apparenti
differenze interpretative di tipo simbolico legate ai
contenuti di pensiero o alle differenze simboliche di
rappresentazione associate a differenti modalità autolesive
o a differenti oggetti utilizzati. Le differenze di
contenuto non cambiano la natura dei processi organizzativi
e psicofisiologici che, invece, rimangono sempre gli stessi.
Un intervento basato sui contenuti basato
sull’interpretazione simbolica, quindi del tutto arbitrario
ed opinabile, oltre ad essere poco utile, potrebbe in realtà
rendere il paziente dipendente dal trattamento, inserirlo in
un sistema interpretativo viziato dalle ideologie
filosofiche del clinico ed alimentare il problema anziché
scardinarlo. L’attenzione sui processi organizzativi, che
ricordiamo sono specie-specifici, sempre uguali per ogni
membro di una stessa specie con poche variabilità forse tra
i sessi, aiutano meglio la comprensione del fenomeno e
permettono di ottenere una maggiore efficacia nei
trattamenti che, non lavorando più sul soggettivismo e
sull’interpretazione simbolica, permettono alla clinica
psicologica e all’educazione funzionale di non rimandare più
variabili astratte, come la peculiare personalità del
clinico o ad altri aspetti soggettivi, l’efficacia del
trattamento che, invece, deve risultare basato su
applicazioni tecniche, dotate di verificabilità e
predittività.
Per noi psicologi emotocognitiva è aberrante constatare che
ancora oggi c’è chi sostiene che l’efficacia di un
trattamento psicologico sarebbe da ricondurre a variabili
del tutto soggettive ed arbitrarie quindi non gestibili. Un
atteggiamento per il quale si rimandasse l’efficacia del
trattamento a variabili simboliche e questioni
“personologiche” del professionista della salute,
testimonierebbe semplicemente la non conoscenza delle leggi
fondamentali che regolano il funzionamento dell’organismo,
sarebbe cioè testimonianza della scarsa conoscenza dei
processi psicofisiologici e, molto probabilmente,
testimonierebbe la tendenza filosofica di chi (persona o
gruppo) appoggiasse una simile posizione ideologica.
Inoltre, la differenza tra l’impostazione tecnica adottata
dalle teorie emotocognitive che in psicologia si inseriscono
nel panorama della psicologia scientifica e l’impostazione
metafisico-simbolista della vecchia psicologia filosofica
ancora dominante in certi ambienti (in particolare nella
psicoterapia), ci aiuta a capire che quello che stiamo oggi
proponendo possa essere un atto non soltanto
scientificamente rivoluzionario, ma quasi “eretico” per chi
ancora domina usando vecchi assiomi concettuali, più vicini
all’astrattismo filosofico che ad una posizione scientifica
basata su leggi codificate. Non è certo un dato scientifico
quello di rimandare alla personalità stessa del clinico,
l’efficacia di un trattamento. Sarebbe come dire che un
trattamento chirurgico non fosse efficace per la bravura
tecnica del medico ma per la peculiare personalità del
chirurgo. Farebbe sorridere da una parte e rabbrividire
dall’altra perché non potremmo mai realmente fidarci di un
professionista della salute al quale, prima, dovremmo
somministrare, se funzionasse, un test di personalità!
La psicologia emotocognitiva, come forma di psicologia
scientifica, è in antitesi rispetto all’impostazione
metafisica della psicologia filosofica. Essendo però
l’impostazione filosofica ancora dominante in alcuni
ambienti accademici (e in ambienti istituzionali come
addirittura alcuni ordini professionali), altro non ci si
può aspettare che atti di censura rispetto a chi, come noi,
cerca di proporre una visione più tecnica e pragmatica
nell’ambito degli studi psicofisiologici. Questo è
importante quando si parla di salute perché i “luminari”
accademici spesso ignorano quanta innovazione ci sia al di
fuori delle loro conoscenza e, lo sappiamo tutti, la loro
posizione potrebbe condizionare l’intero sistema della
salute.
Errate convinzioni promosse da ambienti
accademico-istituzionali potrebbero diffondersi facilmente
nell’intero sistema sanitario come uniche verità
danneggiando la salute di tutti. Infatti una cosa è certa:
oggi i casi di suicidio sono in aumento, soprattutto i casi
di suicidio allargato o omicidio-suicidio. Si abbassa l’età
del suicidio (che, guarda caso, segue l’abbassamento
dell’età di prescrizione di psicofarmaci) quindi si allarga
la base e in alcuni contesti come le carceri sono fenomeni
all’ordine del giorno. Questo ci fa capire come il dominio
delle teorie accademiche abbia portato a fallimento dei
programmi di prevenzione che oggi ancora vengono finanziati.
L’attenzione ha necessità di essere spostata dall’opinione
che parlando di suicidio si debba necessariamente parlare di
“malattia mentale” al concetto, forse più probabile, che le
conoscenze fino ad ora applicate nella sanità pubblica
abbiamo delle grosse lacune. E’ necessario iniziare a
comprendere che il fenomeno del suicidio può essere studiato
sotto altri punti di vista e, anziché censurare, sarebbe
necessario iniziare ad ascoltare chi propone innovazione in
ambienti diversi da quelli accademici, in ambienti cioè più
liberi e svincolati dai giochi di potere politico-economici.
Qui in gioco, lo ripeterò sempre con forza, c’è la salute di
ognuno di noi, c’è la nostra vita e non è certo una nota
retorica, perché in Italia e nel mondo c’è chi continua
realmente a morire per gli errori conoscitivi di lobbies di
potere.
Quindi lo spostamento di ottica, proposto dalle nostre
teorie emotocognitive, dal contenuto simbolico allo studio
dei processi organizzativi sistemici potrebbe essere visto
come “eresia” in alcuni contesti istituzionali ed una vera e
propria rivoluzione scientifica in contesti più aperti. Il
processo alla base di una manifestazione sintomatologica,
quindi anche alla base del pensiero ossessivo di suicidio
così come dell’ideazione suicidaria, risulterà sempre lo
stesso ed inscrivibile nello schema del “loop disfunzionale”
(Baranello, 2006a) e degli schemi emotocognitivi da esso
derivati. Abbiamo più volte sostenuto che anche il disturbo
borderline di personalità potesse essere meglio compreso
attraverso lo schema del loop disfunzionale quindi essere un
tratto apparentemente impulsivo di un processo di natura
fobico-ossessiva (Baranello, 2009) e l’ideazione suicidaria,
così come l’autolesionismo o l’atto stesso del suicidio,
essere meglio compresi come azioni di natura compulsiva tesi
a ridurre uno stato di sofferenza primaria (Baranello,
2006b) legato ad ansia generalizzata o situazionale o a
pensieri intrusivi contrari, o comunque distanti, alle
aspettative del soggetto.Possiamo così inscrivere nello
schema del loop disfunzionale entrambi i fenomeni, infatti
tutti i soggetti rispondono in modo diretto alla sensazione
di perdita di controllo attraverso un’azione di contrasto
(che per inciso non produce reali effetti ma incastra il
soggetto proprio nel loop). Il processo, lo schema
concettuale di studio del fenomeno, rimane quindi sempre lo
stesso, valido per ogni situazione. È molto importante
l’addestramento continuo nel paradigma emotocognitivo
teorico e applicato da parte dei professionisti
emotocognitivi in quanto il clinico o l’educatore hanno
necessità di non cadere nella trappola dei contenuti
simbolici che, l’esperienza con molti allievi di teoria
emotocognitiva, ha dimostrato essere sempre in agguato. Un
cambiamento così forte rispetto alle convinzioni che ancora
dominano la vecchia psicologia insegnata nelle classiche
accademie ha infatti necessità di un lungo e assiduo
addestramento per poter essere realmente acquisito da un
professionista del settore e prevenire così possibili errori
applicativi.
In pratica le teorie emotocognitive si distinguono
chiaramente rispetto ai vecchi concetti simbolisti. Così
ogni giustificazione, ogni “perché” astratto, ogni
interpretazione dei contenuti, è, dal nostro punto di vita,
assolutamente superflua ed inutile sul piano pratico. Gli
psicologi emotocognitivi non passano le ore, le settimane, i
mesi e gli anni ad ascoltare il paziente come avviene in
certi altri contesti come la psicoterapia che è
assolutamente distante dalla pratica clinica degli psicologi
ad orientamento emotocognitivo. Nei trattamenti di
riabilitazione funzionale in psicologia emotocognitiva i
tempi d’intervento sono molto ridotti calcolando il numero
di sedute complessive e la frequenza è assolutamente
variabile in relazione alla risposta del trattamento. Anche
l’ascolto è ridotto all’essenziale mentre è preponderante la
parte psicoeducativa svolta dal professionista psicologo.
Per noi chi ancora focalizza l’attenzione sui contenuti
simbolici, parlando del passato o di strane cause inconsce o
addirittura di trauma, si allontana dalla comprensione della
realtà dei fatti, anzi, avvertiamo con decisione e fermezza,
che l’attenzione rivolta al simbolo, al passato o alle
relazioni, potrebbe in realtà essere gravemente
patogenetica, creare cioè il problema o esacerbarlo anziché
rispondere in modo pragmatico ed in tempi brevi alle
richieste sanitarie di riabilitazione dell’utenza e della
società.
Come diciamo sempre, per noi il simbolismo è qualcosa di cui
ognuno è libero di godere ma qualcosa da cui non dobbiamo
mai diventare schiavi e soprattutto non è il simbolo che
cura. Il simbolismo esiste per la persona ma non ha, secondo
le moderne concezioni emotocognitive, nessun valore sul
piano del trattamento che, invece, deve poter rimanere
tecnico, orientato al ripristino di una normale condizione
di salute. L’atteggiamento degli psicologi emotocognitivi è
quello di rendere le persone libere di scegliere rispetto al
contenuto simbolico, etico e morale, della propria vita. In
una battuta “se il cuore non funziona al cardiologo non deve
importare nulla per chi batte quel cuore, in modo tecnico il
cardiologo dovrà aiuta a far battere ancora quel cuore , in
modo che ognuno sia libero di farlo battere per chi vuole”
(Baranello, lezioni). Il processo di funzionamento del cuore
è infatti sempre lo stesso ed indipendente dalla simbologia
(per chi batte). Non si capisce perché nelle scienze
psicologiche non debba valere lo stesso! Ormai tutti
sappiamo che non esiste la “mente” in termini astratti ma
quale funzione dell’organismo ed ogni atteggiamento teso a
separare “mente” e “corpo” è ormai anacronistico. Quindi
l’organismo risponde attraverso le sue funzioni ai processi
organizzativi che saranno sempre considerati
psicofisiologici (unità inscindibile simultaneità delle
funzioni di un organismo).
Per la psicologia emotocognitiva la vera causa di un
problema non è né nel passato né in cause simboliche, ma è
da rintracciarsi nell’esatto qui-e-ora in cui comunque il
problema, il sintomo o il disturbo si manifestano. Questo
per il principio di simultaneità tra causa ed effetto, uno
dei postulati fondamentali della teoria emotocognitiva.
Infatti è qui-e-ora il dove e il quando nei quali si
manifesta un problema indipendentemente da quanti problemi
ci siano stati nel passato. Ogni problema “del passato” è
stato un problema nel qui-e-ora di quando quel passato era
presente. È pertanto sempre nel qui-e-ora che le cause
stanno realmente agendo, ovvero, causa ed effetto sono
sempre simultanei, presenti contemporaneamente ovvero “nel
qui-e-ora causa ed effetto non esistono”. È molto
improbabile che una causa sia da rintracciare nel passato
della persona o in bizzarre ipotesi simboliche. È così
altrettanto improbabile che siano necessari lunghi anni di
trattamento in quanto, scardinando i processi che stanno
mantenendo il problema oggi, si apre la strada alla
riabilitazione funzionale, al futuro della remissione
sintomatologica spontanea quindi alla cura.
Per sintetizzare rispetto al contenuto suicidio ricordiamo
che il pensiero di suicidio di natura ossessiva ha la
caratteristica di essere intrusivo per il soggetto, quindi
non voluto. In questo caso è lo stesso pensiero a causare
ansia quindi disagio ed il soggetto si sentirà, in qualche
modo, costretto a mettere in atto azioni di pensiero o di
comportamento tese a ridurre tale stato di disagio, azioni
che, come ben spiega la psicologia emotocognitiva, non
sortiscono un reale effetto nella soluzione del problema ma,
anzi, rappresentano proprio ciò che contribuisce al
mantenimento o aggravamento dello stato di disagio.
Nell’ideazione suicidaria, invece, il pensiero di suicidio è
visto come un tentativo di soluzione, a volte come l’unica
soluzione, altre volte come una delle possibili soluzioni,
per il soggetto, di annullare uno stato di disagio che, il
soggetto, vive come non modificabile. In altri casi
l’ideazione suicidaria o il tentativo di suicidio, come nei
soggetti con diagnosi di disturbo borderline di personalità,
possono avere funzioni manipolatorie, tese a condizionare
gli altri ovvero l’ambiente di vita del soggetto. In
quest’ultimo caso può essere più raro che il suicidio venga
commesso anche se alcuni di questi casi possono esitare, a
volte solo per errore, in un vero e proprio atto di
suicidio.
Il Suicidio come Risposta alla Perdita del Senso di
Volizione
Perché si commette suicidio? Ovvero quali processi portano
alla genesi dell’atto suicidario? In ogni caso l’atto del
suicidio è sempre un’azione che si svolge in pochissimo
tempo per quanto si possa programmare e si basa sempre sugli
stessi processi organizzativi. La programmazione infatti è
una sequenza generata da una primaazione a cui seguono altre
azioni direttamente collegate. Quando l’organismo programma
una sequenza, dobbiamo ricordarlo, il tentativo di
inibizione volontaria della stessa produce un incremento
tensivo che tende ad esitare proprio nell’azione
indipendentemente se essa sia funzionale o meno. Dietro ad
una programmazione di un suicidio, compresi i
“suicidi-omicidi” dovrebbe esserci in genere una tendenza
del soggetto al controllo personale ed interpersonale e
chiari tratti ossessivo-compulsivi di personalità a cui
spesso si può associare umore depresso. Il soggetto con
tratti ossessivi di personalità generalmente non ha,
soprattutto in giovane età, tendenze anticonservative, ma le
sue tendenze idealiste, perfezioniste e di controllo diretto
spesso si scontrano con una realtà diversa e, dalla mezza
età, e più probabilmente in tarda età, può arrivare ad
atteggiamenti depressivi che orientano il soggetto a scelte
anticonservative, all’ideazione suicidaria o all’atto stesso
del suicidio. Tutti i soggetti infatti, avvertendo una
perdita di controllo rispetto alle proprie aspettative o
riceventi un feedback negativo rispetto al proprio pensiero
e alle proprie azioni, tendono ad alimentare un forte stato
tensivo (tensione in termini fisici e non simbolici). Tale
stato tensivo, coinvolgendo diversi distretti corporei,
soprattutto muscolari, si risolve sempre in un’azione, anche
psicosomatica, tesa a ristabilire un processo di equilibrio
dinamico che, la teoria emotocognitiva, definisce armonica
(Baranello, 2010). La programmazione nei soggetti con tratti
di personalità ossessivi rappresenta un tentativo di
controllo volontario su situazioni, quindi sensazioni, che
il soggetto sperimenta non gestibili direttamente sulle
quali, cioè, non è in grado di agire alcun potere.
Nei soggetti più
impulsivi in genere manca la programmazione e la sensazione
di perdita di controllo diretto ovvero di non essere agente
nel proprio ambiente può esitare più rapidamente e con più
frequenza in atti autolesivi, ideazione suicidaria fino
all’ultimo gesto del suicidio.
Questo tipo di processo
è quindi comune sia al suicidio programmato che a quello
definito “impulsivo”. Il suicidio programmato o gli
omicidi-suicidi programmati sono, secondo le nostre teorie,
azioni più facilmente riconducibili a persone con forti
tratti ossessivo-compulsivi di personalità in una posizione
depressiva.
Sia il suicidio
programmato che quello impulsivo, sia l’ideazione suicidaria,
fanno capo sempre a processi in cui sembra inibita la
possibilità diretta della persona di essere, in un
determinato momento, più o meno lungo, agente rispetto alla
propria esperienza.
Possiamo ora comprende perché persone in cura per
depressione possano tentare il suicidio proprio durante la
cura che, quindi, possiamo definire in quel caso una
pseudo-cura, o durante i ricoveri. Allo stesso modo si può
comprendere perché sia alto il tasso di suicidio nelle
carceri o in contesti in cui la persona perde la capacità di
poter esprimere attraverso azione il proprio pensiero o in
contesti sociali (quartieri, città, nazioni,…) in cui ci sia
una forte tendenza al controllo sociale, difficoltà di
azione o cambiamento.
Una considerazione importante riguarda i suicidi in quelle
persone che vengono socialmente etichettate come “malati
mentali” e quindi costretti a trattamenti sanitari
obbligatori o ad inserimenti in alcuni contesti di cura in
cui perdono il diritto all’autodeterminazione. La maggior
parte delle persone guarda alla loro situazione dal punto di
vista di un’azione tesa alla loro tutela e salvaguardia
senza più considerarli realmente esseri umani con esigenze
psicofisiologiche uguali ad ogni altro essere umano. Questi
soggetti spesso non vengono neanche ascoltati, vengono
trattati come se qualsiasi cosa dicessero o pensassero fosse
legata al loro stato di disagio. Un’etichetta sociale, in
questo caso, è per sempre! In questi soggetti la perdita del
senso di volizione, inteso come la capacità di essere
direttamente artefice della propria esperienza, è davvero
limitato e l’ideazione suicidaria non è infrequente.
Immaginate che tutto ciò che avete sempre pensato e ritenuto
vero fosse considerato da altri falso, che il vostro stato
fosse considerato da altri come una malattia e vi
costringessero a trattamenti che voi non avreste mai scelto,
vi costringessero in comunità, vi costringessero a svolgere
attività fuori dal vostro interesse, siete proprio sicuri
che vedreste in tutto questo un qualcosa fatto per il vostro
bene?
L’ottica che cerchiamo di proporre, dal punto di vista
emotocognitivo, è l’ottica relativa a chi fa l’esperienza,
al soggetto come centro del proprio campo e universo
sistemico. Già Basaglia aveva capito tutto questo anche se
ancora confidava nell’industria dei farmaci.
Oggi molti psicofarmaci e molte psicoterapie potrebbero
essere considerati i “nuovi manicomi”? Dire una cosa simile
in questo momento storico, sarebbe come dire di chiudere i
manicomi ai tempi di Basaglia, attiverebbe immediatamente la
reazioni di chi si sentisse toccato in prima persona, di chi
avesse basato il proprio potere e i propri interessi su
vecchie concezioni. Ma quando la cura diventa una
costrizione, quando il soggetto perde la capacità di essere
realmente attivo nelle proprie scelte, ecco che
nell’organismo umano si attiva un processo di incremento
tensivo che, come abbiamo spiegato, deve esitare in
un’azione.
Quando il soggetto inizia a sperimentare che ogni sua
azione, ogni pensiero, ogni comportamento non possono essere
finalizzati, trovano censura o inibizione, e non ci sono
canali alternativi di soluzione, molto spesso, emerge nel
soggetto la sensazione di perdita completa del senso di
volizione. Chi riesce a trovare, grazie alle proprie risorse
“temporali”, un processo di riorganizzazione funzionale,
potrebbe trovare nuove soluzioni e tornare a sperimentare
senso di volizione relativo, ma chi invece non ha risorse
(anche ambientali), inizierà a sperimentare una totale
perdita del controllo rispetto al proprio ambiente, a se
stesso.
Ogni azione anche
sociale che mirasse a limitare l’autodeterminazione di un
soggetto porta in se un altissimo rischio patogenetico
impedendo di fatto all’organismo di attivare i suoi naturali
processi di scambio. Un pensiero genera immediatamente
attivazione dei processi di azione che, se inibiti, portano
ad incremento tensivo fino ad esitare in vere e proprie
patologie tra cui disturbi dell’organizzazione
psicofisiologica ed esiti definiti “psicosomatici” per
arrivare anche all’ideazione suicidaria. L’ideazione
suicidaria trova quindi terreno fertile in ogni condizione
in cui un essere vivente, in questo caso un essere umano, ma
anche una coppia, una famiglia o addirittura un gruppo, si
trovasse in uno stato di inibizione rispetto alla propria
autodeterminazione, in cui venissero meno processi di
scambio e di mutua-regolazione, indipendentemente dal
contenuto della specifica situazione.
Maggiore è la distanza tra le aspettative del soggetto in
termini di scelta nel proprio campo di esperienza e la
realtà che si pone in antagonismo maggiore è la sensazione
di perdita di controllo e perdita del senso di volizione e
più alto il rischio patogenetico e quindi anche di ideazione
o atto suicidario. Ogni tipo di valutazione funzionale deve
necessariamente tenere in considerazione il campo in cui fa
esperienza il sistema di riferimento. Comunque,
indipendentemente dai contenuti, il processo di attivazione
che può esitare nel suicidio è sempre lo stesso. In questo
contesto quindi non esiste la formula retorica “si è ucciso
perché….”. Il perché psicofisiologico per cui una persona
potrebbe tentare o attuare il suicidio è sempre lo stesso
anche se il contenuto simbolico, psico-sociale, potrebbe
apparire diverso.
Quando sentiamo “si è ucciso perché lasciato dalla moglie” o
“si è ucciso perché ha subito un’ingiustizia” o “si è
suicidato perché ha perso il lavoro” o “si è suicidato
perché ha preso un brutto voto” o “si è ucciso perché la sua
azienda è fallita” va trasformato in “si è ucciso perché
rispetto alle proprie aspettative e all’investimento delle
proprie risorse considerate dal soggetto “vitali” nella
direzione delle già indicate aspettative, la realtà in cui
si è trovato si è manifestata in forte antagonismo ed il
soggetto non possedeva, in quel momento, strumenti
(conoscitivi, psicologici e/o ambientali) per risolvere lo
stato tensivo emergente. Di fatto all’ideazione suicidaria
“spontanea” ha fatto seguito un’azione comportamentale
associata allo stato di disagio percepito dal soggetto poi
esitata nel suicidio”.
Il suicidio quindi non solo può essere meglio compreso da un
punto di vista dei processi funzionali dell’organismo ma può
anche essere prevenuto attraverso consistenti modificazioni
sociali, programmi di educazione funzionale basati su queste
nuove acquisizioni nel campo del funzionamento sistemico. È
anche possibile trattare in modo efficace coloro che sono a
rischio di suicidio o inseriti in contesti ad alto rischio
come le carceri. Non è comunque sufficiente fare riferimento
ad uno psicologo o ad un educatore è necessario riferirsi a
chi sappia realmente applicare tali nuove teorie. Serve oggi
ritornare al valore della competenza e del merito. Infatti,
in campo delle politiche sociali e della salute, spesso si
tende a incrementare soltanto la spesa (pensiamo alla spesa
sanitaria) senza organizzarla in modo funzionale, senza cioè
fare riferimento ad una verificabile competenza mentre ci si
lascia influenzare da titoli e posizioni. I finanziamenti
sono sicuramente necessari ma è necessario anche sapere cosa
si stia realmente finanziando perché, alla fine, è soltanto
il risultato, quello concreto, che può giustificare una
consistente spesa sociale che potrebbe essere notevolmente
ridotta, se si adottassero nuove concezioni e nuove
metodologie d’intervento quindi si orientasse la spesa verso
ciò che, sul territorio, sia realmente una competenza.
Prevenzione del Suicidio: Educazione Funzionale
L’educazione come forma di cura primaria, è da sempre il
“motto” degli interventi in cui vengono applicati i principi
della teoria emotocognitiva. Ma cosa significa educare. Va
precisato che c’è una netta differenza tra educazione e
istruzione. L’istruzione è il fornire comandi e la verifica
dell’istruzione è basata sul controllo che tali comandi
siano stati appresi così come sono stati impartiti.
L’istruzione è molto rapida da apprendere e da applicare
perché non necessita della reale conoscenza del sistema ed
infatti ha limite nel momento stesso che essa non risultasse
adeguata a causa di imprevisti o in caso di errori di
apprendimento. Il libretto di istruzioni, ad esempio, di un
qualsiasi prodotto ci permette di utilizzare quel prodotto
ma non permette la sua completa conoscenza. Infatti siamo
tutti in grado di prendere un farmaco o usare un telefono
pur non sapendo come funzionano quindi non sapendoli,
eventualmente, riprodurre.
L’educazione è tutt’altro. Per educazione si intende il
“liberare”, il “tirare fuori” quindi rendere accessibile e
di conseguenza gestibile la conoscenza. L’educazione
funzionale di cui siamo forti promotori e sostenitori è una
forma di educazione che possa portare alla comprensione
quindi alla gestione delle funzioni di un sistema e rendere
così funzionale la conoscenza acquisita da parte
dell’osservatore quindi anche del sistema che osserva se
stesso. È pertanto necessario operare nell’ambito
dell’informazione basandosi, di volta in volta, sulle
acquisizioni relative al funzionamento sistemico, non
limitare la conoscenza e rendere accessibile l’informazione
a 360°. Istruzione ed educazione vanno quindi utilizzate
integralmente. L’istruzione permette di far fronte in modo
rapido a problemi già individuati da altri, l’educazione
permette di valutare la reale funzionalità delle istruzioni,
crearne di nuove, ribaltare i presupposti circa il
funzionamento delle cose e quindi permettere una completa
gestione del sistema su cui si agisce, se stessi compreso.
Educare alle funzioni dell’organismo permette così di
conoscerne i processi organizzativi, il “come” del suo
funzionamento. Per prevenire il fenomeno del suicidio ovvero
ridurre la manifestazione a livello sociale non è necessario
parlare direttamente del suicidio e dei suoi contro, che,
anzi, secondo i processi individuati dal paradigma
emotocognitivo, rischia in alcuni casi di generare il
fenomeno anziché risolverlo. Parlare di suicidio è solo
funzionale affinché si possa realizzare un vero e proprio
programma per la sua prevenzione che, in realtà dovrebbe
essere un programma di educazione funzionale generale il cui
obiettivo è di fatto la prevenzione di ogni azione che possa
nascere da un processo organizzativo disfunzionale.
Esistono comunque nella
società umana fenomeni come l’eutanasia che sono attualmente
in discussione. Non possiamo quindi partire dall’idea
assolutista che il suicidio sia sempre un atto condannabile
in quanto altri esseri umani potrebbero dichiarare
l’opposto.
L’obiettivo di questo articolo è quello di fornire
indicazioni sulle possibilità di prevenzione di quelle forme
di suicidio che sono esiti di un processo disfunzionale e
che, infatti, a seguito di trattamenti di educazione
funzionale per mezzo di strumenti quali il colloquio
psicologico hanno portato all’estinzione del pensiero o
dell’ideazione suicidaria quindi ad una riabilitazione
funzionale. Trattamenti realmente efficaci potrebbero anzi,
nel futuro, chiarire se il fenomeno che di volta in volta ci
troveremo a trattare, sia davvero un reale problema da
risolvere.
Rimaniamo della ferma
convinzione, mutuata dalle teorie emotocognitive, che ogni
sistema tenda ad organizzarsi per il proprio sviluppo e
mantenimento dinamici (in senso evolutivo) e che, a
differenza del pensiero ossessivo di suicidio, ogni
ideazione suicidaria sia vissuta, a torto o a ragione non
sta a noi giudicarlo, in quel momento dal soggetto, come un
tentativo di soluzione ad una perdita del senso di
volizione, ad una perdita dell’autodeterminazione, sia essa
legata ad una malattia cronica o degenerativa, sia essa
legata ad una situazione che potrebbe essere transitoria,
sia essa legata all’idea che non esistano altre soluzioni, è
sempre soggettivamente vissuta come un tentativo di stare
meglio, di risolvere una sofferenza che abbiamo più volte
definito sofferenza primaria (Baranello, 2006b). Chi ha un
reale pensiero suicida penserà al suicidio da vivo. La
persona quindi ipotizza, pensando alla sua morte,
l’annullamento della sofferenza, quindi vedendo nella morte
una soluzione. Questa sensazione è però necessariamente
legata al momento in cui il soggetto la sta pensando, quindi
da vivo, e non da morto. Il suicidio diviene così il
paradosso per cui cerchiamo nella morte un benessere che
comunque, se dovessimo morire, non potremmo mai realmente
sperimentare!
L’educazione funzionale su cui si focalizza l’intervento in
psicologia emotocognitiva ha l’obiettivo di rendere libere
le persone di scegliere perché altrimenti molti potrebbero
ancora vedere nel suicidio una soluzione quando in realtà
oggi si potrebbe trovare una soluzione, vera ed in tempi
brevi, al problema che sembra stimolare nella persona
l’ideazione al suicidio. È oggi indispensabile iniziare a
pensare, grazie anche ai contributi delle nuove acquisizioni
sul funzionamento dell’organismo proposte dalla psicologia
emotocognitiva, a nuovi programmi di educazione funzionale
da inserire nei contesti educativi di qualsiasi ordine e
grado al fine di prevenire il suicidio patologico così come
altre forme di disturbi nella salute psicofisiologica e
quindi nella salute sociale. Iniziare oggi significa
muoversi per il futuro. Ogni giorno che passasse in più
rimanderebbe soltanto l’inizio del cambiamento e
significherebbe impedire alla nostra generazione o a quella
immediatamente successiva di usufruire di qualcosa che
esiste ed è disponibile per tutti già da ora.
Dott.
Marco Baranello
riferimento bibliografico per citare questa fonte:
Baranello, M. (2009)
Comprensione e prevenzione del suicidio nella teoria
emotocognitiva
Psyreview.org.
Roma, 01 marzo 2011.
Bibliografia di Riferimento
APA (2000) Manuale diagnostico e statistico
dei disturbi mentali, IV edizione text revision (DSM-IV-TR).
Masson, Milano 2001.
Baranello, M. (2006a) Psicologia
emotocognitiva: il loop disfunzionale. SRM Psicologia –
Psyreview.org. Roma, 10 marzo 2006.
Baranello, M. (2006b) I concetti di
sofferenza primaria e sofferenza secondaria in psicologia
emotocognitiva. SRM Psicologia – Psyreview.org. Roma, 26
giugno 2006.
Baranello, M. (2009) La psicologia
emotocognitiva nel trattamento psicologico del disturbo
borderline di personalità. Bollettino
Scientifico-Professionale A. 4 N. 1 9 maggio 2009. SRM
Psicologia, Roma 2009.
Baranello, M. (2010) Paradigma
Emotocognitivo. Sistemi funzionali antagonisti, principi di
simultaneità e legge emotocognitiva dell’armonizzazione.
Psyreview, ISTEM Edizioni, Roma 10 novembre 2010.
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